Qual è il confine tra essere umano ed essere sintetico? È questo l’interrogativo, sconvolgente ma quanto mai attuale in tempi in cui si parla di IA e machine learning, che intende porci David Cage. E con lui il suo team, che ora ha in forze uno sceneggiatore brillante, proveniente dal mondo della TV e con tanta voglia di dire la sua nella games industry. Noi di GamesVillage l’abbiamo incontrato, in occasione dell’evento organizzato da Sony che ci ha permesso anche di provare le prime 2 ore del gioco in questione. Quello che abbiamo visto, segnatevi le nostre parole, è semplicemente mindblowing.
Una straordinaria autorialità
Entriamo in sala, luci blu, fondali della città di Detroit illuminati sulla parete. Siamo accolti da una serie di androidi che ci indicano il posto dove sederci. Ed ecco che arriva Adam Williams, Lead Screenwriter di Detroit: Become Human.
Chi mi conosce sa quanto ho atteso questo momento. Da quando ho potuto vedere per la prima volta la demo tecnica Kara, ben 6 anni fa, nel 2012, ho sognato di poter esplorare la storia di quel personaggio, un cyborg, eppure così umano e affascinante. La mia ammirazione per David Cage, poi, è ben nota: si tratta di un autore vero e senza compromessi, che ha avuto i suoi momenti meno ispirati, ma che più di ogni altro game designer è riuscito a rivelare di fronte agli occhi delle persone le potenzialità espressive ed emotive di questo medium. Come amo spesso raccontare, Cage è legato indissolubilmente alla mia storia professionale: fu la prima persona che intervistai, all’inizio di una carriera che mi avrebbe portato a lavorare a stretto contatto con la cultura del videogioco.
Introspezioni e suggestioni artistiche
Sappiamo quanto tutta l’opera di David Cage, a partire da Omikron e Fahrenheit fino a Heavy Rain e Beyond: Two Souls, sia improntata a indagare l’animo umano, ponendo costantemente al giocatore quesiti etici e morali, e, soprattutto, facendo capire che, come nella vita, tutte le nostre azioni hanno delle conseguenze concrete, sulla storia, sui personaggi, determinando nuovi stati delle cose. Durante la nostra prova nel corso dell’evento, abbiamo avuto la conferma che Detroit: Become Human non farà eccezione; il gioco ci ha trasmesso davvero la consapevolezza di poter influire in maniera significativa sulla vita dei personaggi, androidi o umani, a partire dalle semplici interazioni verbali che decidiamo di attuare.
Sicuramente Detroit: Become Human riprende tante suggestioni familiari, da Blade Runner fino a Ghost in the Shell, ma la grande attrattiva è la possibilità, finalmente di poterle vivere in prima persona, per giunta con un occhio autoriale diverso, squisitamente europeo. Curiosamente, molti giochi, da System Shock a SOMA, hanno analizzato il tema dell’IA anche in maniera interessante, ma sempre in una chiave horror e inquietante; al contrario, Detroit: Become Human vuole raccontare, come suggerisce il suo stesso titolo, un altro tipo di IA, più umana, più significativa.
Nella sequenza che mi trovo a giocare vesto i panni di Markus, androide interpretato dall’attore Jessie Williams, che mi permette dopo un’attesa che sembrava estenuante di esplorare la città di Detroit; uno spettacolo distopico di vetrine che mettono in bella mostra la perfezione degli uomini e donne robot, mentre mendicanti agli angoli delle strade mi ricordano che in questa società apparentemente perfetta c’è qualcosa di profondamente malato. Alcuni di loro imprecano contro gli androidi, simbolo e causa al contempo della situazione disperata della società: gli elementi sci-fi in Detroit: Become Human non sono una patina, ma piuttosto contribuiscono a creare un mondo fatto di implicazioni coerenti, ramificazioni e scelte.
Conflitti esistenziali
A questo punto raccogliamo una consegna e siamo pronti ad andare a casa: ci troviamo davanti a un edificio di lusso, entriamo. La casa è luminosa, bellissima, e l’atmosfera elegante e rilassata: conosciamo il “padrone” di Markus, Carl, un artista anziano in sedia a rotelle, che accudiamo con moltissima dedizione, facendolo alzare dal letto, preparandogli la colazione e giocando con lui a dama. Anche stavolta, capiamo subito che siamo noi a dar letteralmente forma al rapporto dei due personaggi: possiamo addirittura farlo vincere di proposito, o suonare il pianoforte per le sue orecchie che ormai hanno sentito troppo… Tra i due sembrano esserci un affetto e una stima enormi, e il loro rapporto va ben oltre quello padrone-schiavo che ci si aspetterebbe, assomigliando piuttosto a quello di un padre con suo figlio. Questa impressione ci viene confermata poco dopo, quando incontriamo il figlio di Carl. Mi trovo nello studio dell’artista, quando Carl mi chiede di dipingere per lui: nei panni dell’androide, realizzo una copia esatta di una scultura poco distante, ma Carl mi chiede di andare oltre la perfezione della copia e di creare un quadro che sia davvero “mio”. Allora, creo un mio ritratto, che sembra avere dei toni nostalgici e rivoluzionari.
Nei panni di Markus, androide umano, inizio a domandarmi il significato della mia stessa esistenza. A questo punto irrompe nella stanza il figlio dell’uomo, che immediatamente chiede denaro al padre. Al rifiuto di Carl, che sottolinea di aver prestato denaro solamente pochi giorni prima e accusa il figlio Leo di fare uso di droga, questo inizia ad inveire, accusando a sua volta il padre di non tenere a lui e piuttosto, di voler bene a Markus, considerandolo il suo vero erede. La domanda che sorge di fronte al giocatore è spontanea: un legame d’affetto o d’amicizia può oscurare un legame familiare e sanguigno? Carl tratta Markus come fosse un figlio, mentre il figlio naturale sembra voler solamente sfruttare il padre per ottenere denaro, combinandone una dopo l’altra. Poco importa che uno di loro, in questa storia, sia un essere artificiale. Il finale della sequenza porta all’esasperazione questa sensazione di ambiguità, esplorando ulteriormente il conflitto tra questi personaggi, e approfondendo la tematica della possibilità di affezionarsi a un essere sintetico.
Un dramma in famiglia
Nella sequenza successiva mi ritrovo improvvisamente nella città, all’interno di un negozio che vende androidi. Vedo davanti a me, in primo piano, un certo Todd, che viene aiutato dal commesso per comparare alcuni modelli di robot; a un certo punto, questo fissa lo sguardo su un modello particolare: si tratta di Kara.
Scopro subito che Todd conosce in realtà bene il modello, avendolo riportato al negozio dopo averlo distrutto “in un incidente”. A dare il nome alla donna robot è la bambina di Todd, Alice, che si trova a vivere da sola con il padre. Entro quindi nell’abitazione: l’atmosfera è buia e cupa, rimarcata abilmente dall’utilizzo di toni scuri e quasi rarefatti. Mi trovo in una sorta di casa-fantasma, piena di lattine di birra e sporcizia, che nei panni di Kara mi viene ordinato subito di sistemare.
Pulisco e ordino il piano terra e vado quindi a continuare al piano di sopra, nella stanza di Todd, dove trovo pillole varie di antidepressivi, accompagnati da bottiglie di birra sparse ovunque. Trovo quindi indizi utili che mi fanno capire subito quanto condizione di Todd sia instabile. Nei panni di Kara ho finalmente l’occasione di conoscere un po’ meglio la bambina, dirigendomi nella sua camera: Alice sembra non voler instaurare alcun rapporto, e mi trovo a cercare di costruire una nuova amicizia tra le due, prima molto legate l’una con l’altra.
Azioni e conseguenze
Riesco alla fine a fare breccia e Alice mi consegna una chiave, che poco più avanti troverò molto utile. Capisco quindi il motivo del silenzio di Alice: nei momenti di rabbia, Todd, distrutto dall’abbandono della moglie, inveisce contro la bambina, urlando e picchiandola. Mi trovo subito dopo, nei panni di Kara, quasi impietrita a dover assistere alle urla di Todd verso la figlia, quando, al peggiorare della situazione, Todd prende a schiaffi la bambina. Alice scappa nel piano di sopra e Todd mi ordina di restare al suo posto; nei panni dell’androide mi trovo a dover decidere cosa fare: obbedire agli ordini o combattere letteralmente contro la mia programmazione, che mi imporrebbe di eseguire gli ordini senza obiettare o avere iniziative e salvare Alice. Una serie di quick time event mi portano letteralmente ad abbattere la barriera di programmazione che non mi consentirebbe di andare al piano di sopra, per obbedire a Todd. Qui troviamo una resa visiva estremamente interessante della lotta interiore sentita da questi uomini-macchina, che in Detroit: Become Human si trovano continuamente a combattere contro la propria natura artificiale. Distruggo la barriera virtuale e corro verso la stanza di Alice: mi metto subito tra Alice e Todd e mi trovo subito a dovermi difendere dall’uomo, che inizia ad attaccarmi furiosamente. fino a farlo cadere esanime; scappo allora con Alice verso la città.
Scopro, immediatamente, che il finale previsto per la mia sequenza è stato la diretta conseguenza di tutte le scelte, le azioni, le parole, intraprese dal momento in cui, nei panni di Kara, ho messo piede nella casa: Alice può morire o posso salvarla, e l’aspetto fondamentale è che sono davvero in grado di decidere quale strada voglio percorrere. Come sottolineato anche da Adam Williams, sceneggiatore del titolo, le vere difficoltà per Kara iniziano una volta fuori dalla casa: ora si trova a dover fronteggiare una realtà oscura, e a dover proteggere non solamente se stessa, ma anche e soprattutto Alice.
Questa per me è la prova fondamentale che l’attenzione posta al dialogo, unita a un’interfaccia intuitiva e immediata, e quick time event estremamente semplificati rispetto anche a Heavy Rain, permettono davvero a Detroit: Become Human di scorrere naturalmente, e al giocatore di immedesimarsi, lasciandosi emozionare e conquistare dalla storia. Naturalmente bisognerà vedere come tutto questo sarà sviluppato nel gioco completo, dal momento che la narrazione interattiva alla Quantic Dream deve da sempre combattere con la necessità di mantenere uno script coerente e al tempo stesso offrire un ampio spettro decisionale per il giocatore, ovviamente sempre con l’aleggiare inquietante dei costi di produzione che lievitano quanto più aumentano le ramificazioni dello storytelling.
Fortunatamente, a differenza dei suoi lavori precedenti, questa volta Cage ha deciso di farsi affiancare nella scrittura, trovando una spalla che l’ha aiutato a raffinare le sue idee, di base brillanti ma con una forte necessità di essere sgrezzate. Williams ci spiega che questa volta le scelte morali sono molto più abbozzate rispetto al passato, proprio per far sì che ognuno di noi possa calarsi profondamente nelle situazione, e interpretarle, quasi come se fosse un attore di teatro. Non aspettatevi quindi il dualismo manicheista “Paragon/Renegade” di Mass Effect, bensì una gamma molto più ampia di sfumature, una cornice all’interno della quale avremo largo spazio di manovra per plasmare la nostra personalissima storia. Detroit: Become Human sembra volersi differenziare nettamente dalle avventure Telltale, offrendo bivi anche contrastanti tra di loro, laddove in titoli come The Walking Dead, di cui il gioco di Cage rappresenta una versione ad alto budget, le scelte tendono sempre a essere confinate in un reame più ristretto. Sarà interessante vedere come gli sceneggiatori siano riusciti a gestire un’entità narrativa così imponente, ma già da adesso le premesse sembrano essere ottime.
Detroit: Become Human non ha paura di andare in profondità, e anche da queste prime battute dimostra di essere molto attento nei confronti di problematiche sociali di grande importanza, come la violenza domestica, oltre ad avere un occhio sempre aperto alla tematica della diversità e dell’inclusività; ci racconta Williams che gli androidi appartengono a diverse etnie, poiché la volontà era di dare a tutti i giocatori la possibilità di immedesimarsi. Quasi una provocazione: in un’Europa che ha forti difficoltà ad accettare migranti che hanno la sola colpa di avere il colore della pelle diverso dal nostro, figuriamoci se saremmo pronti ad accogliere un essere sintetico! Lo sdegno con cui queste creature artificiali vengono guardate dai personaggi del gioco, non è forse lo stesso degno che riserviamo a chi è stato costretto a scappare da una guerra, o da condizioni di povertà insopportabile?
L’opera di Cage e Williams non poteva uscire in un momento storico più azzeccato, con conquiste post-umane, come la prima cittadinanza conferita a un’androide, che ci spingono a ridefinire i confini della cosiddetta normalità e del comunemente inteso. E finalmente, grazie alla ricerca artistica senza sosta di Cage, si potrà parlare di questi temi anche in un videogioco.