La nascita di tanti studi di sviluppo è stata fra le prime conseguenze dell’enorme boom della game industry nel nostro paese nel nuovo millennio: fra i più importanti vanno inseriti i milanesi Ovosonico, autori di Murasaki Baby e del più recente Last Day of June, con il veterano Massimo Guarini al timone del progetto. Abbiamo avuto modo di incontrare il designer italiano che ha lavorato a fianco di Suda51 e Shinji Mikami, in occasione del Cartoons on the Bay, l’annuale rassegna dedicata all’animazione diretta da Roberto Genovesi, e abbiamo intrapreso con lui una lunga e piacevole chiacchierata, per parlare in generale della crescita e dello stato attuale della games industry, del problema di nomenclatura del medium e della necessità di allargare la quantità di temi trattati dall’interattività, il tutto inserito in un contesto di continua evoluzione del videogioco come potente strumento narrativo. Ecco cosa ci ha detto.
Cominciamo con una domanda di attualità… parlaci un po’ della tua esperienza ai BAFTA Awards e di cosa ti ha insegnato. Cosa può significare per l’industria del videogioco e per la tua carriera?
Credo che questo riconoscimento abbia un significato particolare per l’Italia e per l’industria italiana: è di fondamentale importanza che un prodotto italiano, interamente concepito e realizzato in Italia, sia riuscito a interessare una giuria internazionale e prestigiosa come quella dei British Academy Awards. Si tratta di un messaggio forte, che fino a cinque o sei anni fa nessuno fra noi addetti ai lavori in Italia poteva anche soltanto immaginare. Al di là della soddisfazione personale, per noi tutti questo è stato un traguardo inaspettato e oltre ogni più rosea aspettativa. L’industry nostrana, a cominciare dai riconoscimenti ottenuti da Mario + Rabbids: Kingdom Battle lo scorso anno, ha lanciato e sta lanciando un messaggio fortissimo.
Facendo un passo indietro, parliamo un po’ della produzione di Last Day of June, tu pensi che i videogiochi possano davvero essere il medium più efficace per narrare storie adulte e profonde e per mandare messaggi ricchi di significato?
Si, assolutamente, anzi, a parer mio il videogioco è uno degli strumenti di comunicazione più efficaci e più forti in assoluto, proprio perché presuppone un qualcosa che negli altri media è completamente assente: l’interazione attiva dell’utente. Cinema, musica e letteratura hanno un tipo di fruizione a senso unico, anche se in realtà non è propriamente vero perché possono generare emozioni molto forti a livello primordiale (la musica in particolare) e suscitare una vera e propria “vibrazione” nella nostra anima. Il videogioco aggiunge a tutto ciò la possibilità di compiere delle scelte, e, attraverso un sistema di regole ben precise, arrivare ad un risultato finale. Questo permette di instaurare con chi gioca un rapporto esclusivo e molto potente, basato anche e soprattutto sulle emozioni. Da questo punto di vista il videogioco non ha fatto poi moltissimo negli ultimi decenni, ma ciò non significa che non possa farlo: al giorno d’oggi assistiamo a sempre più produzioni indipendenti che sfruttano meccaniche di gameplay innovative per far provare emozioni e per raccontare storie. In passato il discorso si riduceva spesso a mettere insieme un’ammucchiata di meccaniche e regole, con qualche scena coreografica totalmente slegata dalle scene d’azione, inserita più per spezzare il ritmo che per fare altro e realizzata prendendo in prestito il “dizionario” del cinema, senza una vera e propria contestualizzazione a livello emozionale. Produzioni più recenti hanno invece dimostrato che possono essere le meccaniche stesse, le azioni e le interazioni compiute dal giocatore, a suscitare delle emozioni, e questo è stato anche il nostro obiettivo con Last Day of June. Abbiamo voluto creare un “nostro” dizionario, insomma.
A livello di tematiche, invece, pensi si possa fare ancora di più? Quali sono le prossime frontiere e i prossimi muri e da abbattere, le sfide da superare, gli scenari da esplorare?
Io penso che il videogioco sia un medium in grado di esplorare qualsiasi tema e mi auguro che inizi a farlo il prima possibile. Ci sono stati timidi tentativi di sdoganare completamente il mercato, fra i quali vorrei ricordare That Dragon, Cancer, che parlava di un tema tristemente attuale, molto potente e intenso. Il motivo per cui a oggi non ci si sente ancora totalmente liberi da questo punto di vista è da ravvisare in una barriera tecnologica che ancora separa il videogioco dalla televisione o dal cinema. Questo, unito al fatto che solo chi conosce i videogiochi può davvero comprenderli, rende ancora difficoltoso per il nostro medium poter arrivare DAVVERO a tutti come invece fanno altri media. Prendiamo ad esempio Netflix, che offre tantissime serie TV a portata di dito: il videogioco non è ancora in grado di fare una cosa simile, ma potrà farlo in futuro con l’avvento del cloud gaming e la sempre maggiore ottimizzazione dei costi e miniaturizzazione dei processori: fra qualche anno, ad esempio, per Sony non sarà così impossibile inserire un chip che permetta di giocare alla PlayStation all’interno dei propri televisori. Per fare un altro paragone, allo stato attuale i videogiochi sono com’erano i lettori MP3 prima dell’avvento dell’iPod: meno semplici e immediati di altri media, ma con un enorme potenziale ancora inespresso.
Vogliamo stuzzicarti ancora di più: e se i videogiochi trattassero anche temi “tabù” come le leggi razziali? Pensi sarebbero in grado di reggere un simile impatto? Ecco, ad esempio qui al CotB c’è una mostra che parla proprio di queste cose: fossero proposte in un videogioco, vedremmo sorgere fior fior di polemiche…
Certo che si, è solo questione di tempo. Non c’è nulla che vieti o impedisca ad un game designer di trattare un tema specifico, ma bisogna prima che il videogioco sviluppi un’audience “orizzontale” e non verticale come oggi, diventando in grado di rivolgersi a chiunque e con assoluta immediatezza. Questi, però, sono anche gli anni dei primi ricambi generazionali nell’industria: al giorno d’oggi esistono game designer che hanno anche 60 o più anni o che sono già andati in pensione da molto tempo. A età come queste è normale, per qualcuno, avvertire il desiderio di trattare altre tematiche rispetto a quando si era sviluppatori in erba e poco più che ventenni. Quella del videogioco resta comunque un’industria incredibilmente giovane, la cui età media, fra addetti ai lavori e appassionati, si aggira intorno ai 35 anni, ed è forse anche per questo che ora siamo qui seduti a chiederci se in futuro verranno mai sviluppati titoli in grado di trattare con disinvoltura tematiche complesse come quella dell’odio razziale.
Secondo te la crescita del videogioco come sport elettronico (basti pensare ai casi di Overwatch, League of Legends, Call of Duty, ecc.) o come fenomeno di massa (PUBG, Fortnite) può in qualche modo limitare lo storytelling, con autori che magari preferiscono rivolgersi verso lidi più “redditizi? O quest’ultimo avrà sempre la sua importanza?
Secondo me sono tutti filoni paralleli! È giusto che alcuni generi di videogiochi stiano scoprendo sempre più la loro vocazione come eSports, ma ciò non significa che toglieranno spazio a tutto il resto. Sarebbe un po’ come dire che, nel cinema, il genere degli action può togliere spazio alle storie d’amore o ai thriller: si tratta semplicemente di esperienze diverse, rivolte a un pubblico diverso e che hanno tutto il diritto di poter convivere. Secondo me al giorno d’oggi esiste un serio problema di suddivisione dei videogiochi in diversi generi, perché per definirli siamo ancora vincolati alle loro meccaniche (shooter, beat’em up, platform, ecc.) con distinzioni convenzionali troppo nette che spesso obbligano la critica a impiegare un numero incalcolabile di sfumature e ibridazioni. Se invece iniziassimo a definirli, come nel cinema, in maniera più descrittiva e legata ai loro contenuti, forse sarebbe tutto più semplice. Allo stato attuale invece abbiamo pochi generi, tutti autoreferenziali e tutti legati strettamente ad una meccanica ben precisa. L’eSport è uno di questi, io non ci vedo nulla di male, anche se per me il problema non è tanto quel che c’è, ma quel che non c’è. È su quello che si deve lavorare e insistere maggiormente.
Tu hai giustamente parlato di videogiochi che andrebbero suddivisi “orizzontalmente” e non più “verticalmente” e hai fatto riferimento a una forte componente emotiva. E se a fare da filo conduttore fra i vari generi fossero i sentimenti, come ad esempio l’amore? Cosa pensi possa riservare il futuro – in tutti i generi – a un concetto così universale? E cosa può dare a sua volta il videogioco a queste tematiche?
L’amore è uno dei temi più comuni e più legati alla nostra vita di tutti i giorni, pertanto il suo utilizzo nei videogiochi può spaziare pressoché ovunque. Noi persone comuni di solito tendiamo a stupirci quando vediamo compiere, sul grande o sul piccolo schermo, azioni fuori dall’ordinario come una passeggiata spaziale o una corsa per sfuggire ad un tirannosauro, eppure ci emozioniamo come bambini quando nei videogiochi viviamo e interagiamo con situazioni tipiche di tutti i giorni. Peraltro tematiche come l’amore, la perdita, la morte e via dicendo, anche a fini sociali e non solo di intrattenimento, possono interessare anche un pubblico più adulto e verso cui il videogioco può veicolare un messaggio più profondo. Il mercato indie è già pieno di esempi simili, ma anche fra gli AAA comincia a spuntarne qualcuno. Il videogioco sta pian piano aprendo le porte ad un nuovo modo di trattare le emozioni, al fatto di inserire temi umani anche all’interno di storie supereroistiche: l’esempio più recente di un simile trend è God of War, che mi auguro sia solo il primo di una lunga serie. Il giorno (non lontano) in cui l’abbattimento di tutte le barriere tecnologiche ci permetterà di parlare anche ad un target meno adolescenziale sarà il giorno in cui il videogioco si aprirà davvero a tutti.
Secondo te a che punto siamo nel percorso di legittimazione del videogioco? Pensi che un giorno il nostro medium verrà davvero considerato da tutti al pari della letteratura, del cinema e via dicendo?
Assolutamente, sarei pronto a firmare col sangue perché questo accada! Scherzi a parte, dobbiamo sempre ricordarci che il videogioco è un medium giovane, molto più giovane del cinema o della musica perché più complesso dal punto di vista tecnologico. Quando gli unici film che era possibile vedere erano quelli di Dracula con protagonista Bela Lugosi, il cinema era ancora considerato come un esperimento, un nuovo gadget tecnologico, esattamente come i videogiochi al giorno d’oggi, a pochi decenni dall’inizio della loro massificazione. Le nuove forme di espressione suscitano sempre una certa indifferenza, destabilizzazione e addirittura paura in chi non è ancora in grado di capirle. Anche internet, come nuovo strumento tecnologico, ha avuto un fortissimo impatto sociale, e i videogiochi, con le dovute proporzioni, stanno facendo lo stesso. È, ripeto, soltanto una questione di tempo: fra 20 o 30 anni il videogioco avrà la stessa dignità di altre arti e opere dell’ingegno umano che, in passato, a loro volta non erano considerate tali.
Continuando sulla stessa scia, soffermiamoci un attimo sulla questione “autorialità” nel videogioco. Quanto è importante per te avere un nome forte alle spalle di un progetto e come pensi si sia evoluta la figura del game director in questi anni? E quale impatto ha avuto sul mercato?
Si, è importante che un videogioco abbia una forte e decisa impronta autoriale: esattamente come accade al cinema, è fondamentale che la visione del singolo venga sposata dall’intero team, portata poi a compimento e fruibile per il pubblico. Inizialmente i videogiochi venivano realizzati da pochissime persone, che si occupavano perlopiù di far funzionare tutto quanto a livello tecnico. Fu in Giappone che apparvero i primi game planner e da lì la figura del game designer, e sempre in Giappone spuntarono i primi game director. Simili professionisti nascevano seguendo la naturale evoluzione del medium, che aveva un bisogno sempre maggiore di figure di coordinamento e poi di controllo di team sempre più grandi. L’approccio autoriale è fondamentale: è importante avere un regista che coordini il lavoro di un team di diversi game designer, affiancato magari da uno o due direttori creativi che lo aiutino a dare personalità e fisionomia al prodotto finale. Noi lavoriamo sempre in questo modo, e così siamo anche in grado di definire un pubblico ben preciso per i videogiochi che sviluppiamo. Personalmente sono ben conscio che esiste gente che ama Last Day of June così come altra gente che lo odia, e la cosa non potrebbe rendermi più felice: significa che so fin da subito a chi rivolgermi! Del resto è impossibile piacere a tutti, no?
Prima hai detto che i videogiochi avrebbero bisogno di nuove terminologie per indicare il medium stesso e i generi di riferimento. Torniamo su questo punto, che secondo noi è interessantissimo: tu quali parole suggeriresti per definire e per presentare all’esterno un’industria sempre più complessa come la nostra? Quanto pensi sia importante affrancarsi dalla parola “videogioco”?
Secondo me è un passo fondamentale, da fare il prima possibile. La parola videogioco è ormai vecchia, e deriva dai primi esperimenti fatti quasi per caso da ricercatori annoiati dietro polverose scrivanie. Lo stesso concetto di video, che negli anni ’60 sembrava qualcosa di mai visto prima, è ormai superato insieme a quello di televisione, dato che ormai siamo letteralmente circondati da informazioni visivo-digitali, sul telefono, in macchina, sugli schermi di casa, perfino in camera da letto. Oggi videogiocare è un termine vintage, un retaggio del passato, anche negativo in un certo senso, se consideriamo che le masse vedono in questa parola un qualcosa di legato al mondo adolescenziale e al semplice gingillo tecnologico. Noi tutti dobbiamo ripudiare queste definizioni antiquate e far capire al mondo che siamo un’industria di intrattenimento, come lo sono quelle del cinema e della musica. Non a caso il videogioco è fatto da musica, da immagini in movimento, da interazione, da un insieme di arti che ritroviamo anche in altre forme espressive, e si è già affrancato non solo dal video (inteso come TV del salotto: oggi il videogioco è ovunque), ma anche dal gioco: la componente più propriamente ludica ha pian piano fatto spazio anche a quella esperienziale. Il gameplay è la somma di entrambe, non è saltare o sparare o compiere tante azioni contemporaneamente senza un contesto, ma è innanzitutto interazione, che porta il giocatore ad avere libertà di scelta per poter avere delle risposte. Non esiste un gameplay di serie A e uno di serie B: se voglio divertirmi in un certo modo gioco a Fifa, se invece preferisco qualcos’altro mi dedico a Journey o a Dear Esther. È importante che anche il pubblico capisca questa differenza, magari facilitato dall’abbattimento delle barriere tecnologiche e dalla maggiore esposizione mediatica del medium: solo così la maturazione del videogioco sarà completa, e chissà, magari chi ne scriverà fra trent’anni utilizzerà termini completamente diversi.
Quello che hai fatto è un discorso complesso e parecchio interessante, sul quale potremmo stare a discutere per ore. Il tempo però è tiranno, e ci conduce inesorabilmente all’ultima domanda, che è quella con cui ti congediamo: cosa pensi di poter ancora dare come autore al mondo del videogioco? Quali frontiere e sfide ti piacerebbe affrontare in futuro?
Sono sicuro di poter dare tutto me stesso ed esprimere attraverso i miei videogiochi i messaggi e le idee in cui credo e che fanno parte della mia esperienza di vita o ne sono una diretta conseguenza. Questo succede per ogni creativo che sviluppi un prodotto: è normale mettere al suo interno un po’ di sé stessi. Io non cambierò il mio stile in futuro perché non posso cambiare me stesso, ma, dopo aver lavorato a videogiochi così particolari, mi piacerebbe poter sposare le mie idee a meccaniche un po’ più mainstream, anche perché vorrei spaziare il più possibile fra diversi generi in futuro, come già ho fatto in passato con Ubisoft, con Grasshopper Manufacture e con Ovosonico. Sono ben cosciente, però, del fatto che i videogiochi che faccio debbano sempre piacere a me per primo, indipendentemente da tutto.
Intervista a cura di Guglielmo De Gregori e Marco Piccirilli