Mi sono approcciato all’edizione per console di Don’t Starve da “vergine” senza aver praticamente visto o giocato il titolo prima di ritrovarmi tra le mani questa versione. Posso dire mea culpa e battermi il petto? Faccio atto pubblico di contrizione, avrei dovuto scoprire prima il titolo di Klei Entertainment e, come novello Wilson, farmi trasportare nel suo orrorifico mondo. Anzi, attraverso i suoi orrorifici mondi, al plurale, uno per ogni incubo che la vostra mente sia in grado di concepire. Caratterizzato da uno stile grafico molto pittoresco e in grado, da solo, di trasmettere quel giusto mix di inquietitudine e spensieratezza proprie del titolo di Klei, Don’t Starve è sicuramente una piccola perla nel panorama videoludico degli ultimi anni. Meccaniche roguelike come se piovesse, una brutalità innata nella linea narrativa e una profondità di gameplay disarmante e del tutto inaspettata a fronte di quanto si può ricavare da meri video in rete, questo titolo ha in qualche modo ridefinito e plasmato ex novo alcuni degli standard del genere survival.
Un piccolo riassunto è d’uopo, direi. Partiamo quindi dalla trama: tutto si incentra su Wilson, il primo dei tanti personaggi giocabili che conosceremo e attraverso le cui vicende potremo sbloccare gli altri protagonisti. Mediocre a livello di trama, Don’t Starve pesca a piene mani dalla letteratttura horror classica e da film di serie B che hanno fatto la storia del genere: il nostro Wilson infatti è uno scienziato più abile nelle elucubrazioni che non nella messa in opera. Maxwell, dal canto suo, gli offre tutta la conoscenza di cui necessita, tutto il suo sapere arcano e proibito, apparentemente senza nulla volere in cambio. Ed è qui che la vita di Wilson si complica; diventa sì in grado di accedere ai più grandi segreti della mente e della scienza ma è destinato a mettere a frutto il suo nuovo scibile nella più strenua battaglia che abbia mai combattuto: quella per la sopravvivenza nei malefici mondi di Maxwell. Nonostante il titolo sia ormai datato, questo Mega Pack infatti è la summa del titolo base e dei due DLC nel frattempo pubblicati oltre all’espansione stand alone Don’t Starve Togheter. Proprio per l’enorme mole di contenuti presenti, preferisco evitare eventuali spoiler, lasciandovi il piacere di scoprire tutto quanto da soli. Il gameplay di Don’t Starve è tanto immediato quanto profondo. Il concetto base è sopravvivere, il tempo è il nostro peggior nemico insieme alla fame e, soprattutto, non dobbiamo mai, MAI!, farci cogliere impreparati al calare delle tenebre. Cose innominabili, artigli pelosi alla fine di lunghi tentacoli che si avvolgono in spire sinuose, mostruosità aldilà della comprensione: ecco cosa si nasconde e prospera nelle ombre dei mondi di Don’t Starve. Il farming e il crafting sono il cardine delle nostre chance di sopravvivenza: i mondi in cui ci aggireremo, infatti, non perdonano gli esploratori impreparati. Ecco quindi che raccogliere bacche, carote e materiali per costruire primitivi attrezzi come asce e picconi diventa la nostra priorità principale seconda solo alla necessità di esplorare, costantemente e senza sosta, il paesaggio che ci circonda alla ricerca di nuove risorse e del luogo giusto dove stabilire un campo permanente per prepararci al gelo dell’inverno. L’alternanza giorno notte e i cicli stagionali sono un altro cardine dell’esperienza di gioco e forse uno dei fattori che più mi ha colpito per l’ingegnosità e per la naturalezza con cui questi elementi si sposano con le caratteristiche del titolo. L’adeguarsi come un vero esploratore in terre vergini ai cicli della natura che ci circonda e, di conseguenza, trovarsi costretti ad affrontare minacce fino a quel momento neanche immaginate, oppure ancora il dover rivedere completamente la propria catena di approvigionamenti, aggiungono un elemento di indubbio spessore al titolo; come già ho accennato, lo fanno con una naturalezza estrema che porta il giocatore a sentirsi quasi parte del processo stesso di evoluzione e cambiamento del mondo che va ad esplorare.
Durante le nostre peregrinazioni attraverso foreste, savane, cave pietrose e smisurate e fetide paludi, dovremo sempre tenere d’occhio tre parametri: fame, salute e nostra sanità mentale. Ogni colpo ricevuto dai diversi mob o boss che affronteremo in questa lotta per la sopravvivenza ci sottrarranno punti ferita, riducendo la nostra salute. La fame, invece, comporterà una iniziale e lenta perdita di senno del nostro personaggio, fino a cominciare ad ucciderlo (neanche troppo lentamente) se trascureremo questo valore per troppo tempo. La sanità mentale, invece, è la sola e unica ancora di salvezza a disposizione di Wilson e degli altri personaggi sbloccabili (in tutto sedici). Quando questa comincerà a vacillare, lo schermo inizierà a tremare e sfarfallare e il nostro personaggio comincerà ad avere delle allucinazioni. Non solo man mano che la nostra salute psichica calerà, fino a picchi conosciuti forse solo nei peggiori manicomi dei primi dell’800, queste allucinazioni non saranno più semplici ombre ma vere e proprie entità che cercheranno di divorarci. Per ripristinare o almeno tentare di conservare la nostra sanità mentale avremo bisogno di particolari equipaggiamenti o indumenti, tutti realizzabili attraverso il crafting. A patto di avere esplorato abbastanza e aver recuperato la giusta quantità delle risorse necessarie, cosa non sempre scontata. Mangiare, invece, ripristinerà i nostri punti fame, più o meno a seconda di cosa mangeremo. Una bella bistecca di Mufalo riempie la pancia meglio di una manciata di semi tostati. Per recuperare punti ferita, infine, dovremo consumare cibi cotti o utilizzare particolari unguenti e sostanze anch’essi craftabili in gioco. Quando poi, ad un certo punto, decideremo di passare da Wilson Nomadi a Wilson Stanziali, sarà il momento di costruire il nostro campo base. Ed è qui che, secondo me, comincia la vera esperienza Don’t Starve (vi consiglio caldamente di provare ad usare questa canzone come soundtrack durante la costruzione del vostro avamposto: provare per credere). Costruendo il nostro campo base, reclamando come nostra proprietà quei pochi metri quadri in un mondo così vasto e alieno, lanciamo il primo segnale di sfida a Maxwell: noi ci siamo, noi sopravviveremo. Per piazzare il nostro campo principale, una volta costruito il relativo falò, dovremo individuare la giusta zona: abbastanza vicina a diversi biomi (le aree nel mondo di gioco in cui è possibile scovare le varie risorse) per essere facilmente raggiungibile, possibilmente in una zona relativamente aperta e in prossimità di una strada. Una volta piazzato il nostro bel fuocherello e costruita una macchina della scienza, potremo avere accesso a “ricette” per strumenti e strutture di livello superiore che ci consentiranno di espandere la nostra base e di costruire fattorie e altri assetti che ci faciliteranno le cose d’ora in avanti. Soprattutto, una volta cominciato a sistemare il nostro accampamento sarà il momento di pensare seriamente a prepararsi all’inverno. Con esso, infatti, le nostre fattorie cesseranno di produrre cibo, così come le nostre arnie, dovremo quindi avere pronti dei piani di contingenza per affrontare il freddo pungente e i rischi di assideramento che l’inverno porta con se. A proposito, vi ho già detto che amo i Mufali, si? Quei simpatici animaletti, in inverno, saranno i vostri migliori amici, fidatevi!
Ho accennato anche ai DLC e all’espansione compresi in questo Mega Pack. I DLC, rispettivamente World Of Giants e Shipwrecked, vanno ad aggiungere nuove meccaniche (e quindi nuove sfide) al gioco, introducendo elementi come l’umidità e il sovrariscaldamento, oltre a diversi nuovi set di materiali e oggetti craftabili. Shipwrecked, in particolare, ci offrirà anche la possibilità di esplorare i minacciosi mari e atolli che circondano le terre emerse nel mondi creati da Maxwell e di recuperare nuove ed esotiche risorse. Don’t Starve Togheter, invece, va ad aggiungere il divertimento della cooperazione al titolo. Su questo in particolare mi sento di dire “chapeau” ai ragazzi di Klei per essere riusciti a ribilanciare, limare e a tratti reinventare da zero alcune meccaniche di gioco essenziali in modo equilibrato. Il tutto riuscendo a non snaturare il concept di base del titolo che, ricordiamo, è un survival con meccaniche roguelike e una curva d’apprendimento relativamente ripida. Imparare i rudimenti e a muoversi nel gioco è infatti abbastanza facile, anche se un breve tutorial (almeno per alcune delle meccaniche avanzate) sarebbe forse necessario, ma riuscire a sopravvivere a lunghi periodi richiede tempismi e preparazioni certosine che si possono acquisire solo con l’esperienza sul campo. Tecnicamente il titolo si presenta al top della forma anche su console. Ho avuto la possibilità di testare il gioco di Klei su PlayStation 4 Pro e la resa grafica è eccellente. Nessun tentennamento, framerate solidissimo e incespicante solo in occasione dei (poco frequenti) autosalvataggi. Anche qui gli sviluppatori meritano una bella menzione d’onore per la rivisitazione dell’interfaccia utente. Come avrete capito, in Don’t Starve il tempismo è fondamentale. L’interfaccia proposta per la versione console del gioco è ottimamente studiata e, grazie all’uso dei trigger e degli stick analogici, navigare tra i menu per il crafting e il nostro inventario è semplice ed intuitivo. Sul fronte sonoro, devo dire di non aver trovato se non ripetitiva e a tratti noiosa la colonna sonora del gioco, ma di aver oltremodo apprezzato la scelta di assegnare ad ogni personaggio uno strumento musicale come “voce”. In un contesto onirico e distopico come quello dei mondi proceduralmente generati dal titolo, questo uso del suono risulta una sorpresa gradita e quel tocco di stile che riesce a caratterizzare appieno, pur senza avergli dato una vera e propria voce, i vari protagonisti del gioco.