Ogni volta che la stampa generalista parla di videogiochi, dedicandosi ad articoli un po’ più complessi dell’annuncio di un nuovo titolo o del ritorno di una famosa mascotte,
combina pasticci. Con le ovvie dovute eccezioni, è davvero raro trovare argomentazioni sensate legate al gaming: è sempre più facile demonizzarlo o quantomeno piantare il seme del dubbio, anche perché il target medio di alcuni giornali è del tutto estraneo a questo mondo, e risulta certamente più interessato a titoloni e tragedie che a corretta informazione. La “novità” di questi giorni (che di nuovo ha in verità poco) è la decisione dell’OMS di introdurre il Gaming Disorder nella classificazione delle patologie esistenti, e sul web è davvero complesso orientarsi tra la marea di parole scritte al riguardo, che confondono non poco le idee. Per cercare di semplificare la questione e soprattutto spiegare perché nulla è cambiato, abbiamo preparato una serie di risposte chiare, concise e che dovrebbero aiutare i giocatori a comprendere la situazione e a tentare di spiegarla a chi già ci vede tutti come dei malati mentali, prossimi a perdere casa e lavoro e a vivere sotto un ponte.
Che cos’è l’ICD- 11 e perché l’OMS vuole inserire il disturbo da gioco compulsivo?
L’International Classification of Diseases è un elenco di patologie, divise in varie categorie e sottocategorie, e nasce per consentire di fare diagnosi ai medici di tutto il mondo. L’edizione in uso al momento risale agli anni ’90, ed è essenziale che venga aggiornata. L’OMS ha deciso di inserire il Gaming Disorder poiché lo ritiene un problema la cui diffusione è in aumento e su cui è necessario fare chiarezza e fornire strumenti agli psicologi e psichiatri per occuparsene, nei casi selezionati.
Già da anni si parla di questa malattia, prima come era classificata?
L’Internet Gaming Disorder era già presente nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), in particolare nella sua 5° edizione che è disponibile dal 2013. Erano già stati definiti i punti fondamentali, che in gran parte coincidono con quelli attuali dell’OMS, ma era anche stato chiarito che fosse necessario ulteriore studio e ricerca per comprendere a pieno questa patologia. Questa definizione implicava che non ci fosse certezza che il Gaming Disorder sarebbe stato presente anche nel futuro DSM-6: tutto dipende da cosa mostreranno le ricerche di psichiatri e psicologi in questi anni.
Quindi cosa c’è di nuovo con l’inserimento della malattia dell’ICD?
Poco, poiché già se ne parlava nell’ambiente medico e già si scrivevano articoli scientifici a riguardo. L’OMS certamente è un’organizzazione di enorme rilievo, e che abbia deciso di occuparsene manda un segnale importante. Ma cambia davvero poco: al momento ancora non esistono protocolli di terapia specifica e ci sono pochi dettagli sulla patologia in sé. C’è parecchia strada da fare.
Sono tutti d’accordo sul fatto che questa patologia esista?
No, alcuni psicologi ritengono inopportuno inserirla, in gran parte poiché pensano (forse a ragione)che c’è ancora molto da capire e definire prima di catalogarla. Ma esistono anche tanti esperti che sono concordi con l’OMS ed hanno lavorato a ricerche a riguardo e a definire i criteri classificativi. Non è comunque la prima volta che parte della comunità scientifica si divida sull’introduzione di una nuova malattia, anzi è piuttosto comune, sopratutto per l’ambito psichiatrico.
Come si diagnostica il Gaming Disorder?
Un malato dipendente dai videogiochi è una persona con seri problemi nella vita quotidiana: il gaming ha preso il sopravvento su tutte le altre attività, il soggetto ci pensa costantemente e non riesce più a svolgere il proprio lavoro o a portare avanti relazioni sociali. Proprio come un alcolista, mente per nascondere le sue abitudini ed è preoccupato dalla situazione, ma non riesce a uscirne da solo. Questi criteri patologici devono inoltre essere presenti per almeno un anno, il che dovrebbe consentire di evitare diagnosi errate.
Quindi se gioco tanto posso essere dipendente?
Chi ha dipendenza dai videogiochi passa tantissime ore a giocare, ma non è vero che chi gioca tanto è automaticamente dipendente. Infatti il numero di ore di gioco quotidiano non sono nemmeno uno dei criteri per fare diagnosi, poiché è troppo soggettivo e dipende dalla quantità di tempo libero e numerosi altri fattori.
Perché inserire il Gaming Disorder e non la dipendenza da film, fumetti o altro?
L’Internet Gaming Disorder è nato ponendo un forte accento sulla componente multiplayer, poiché le interazioni online con altri giocatori sembravano essere un punto fondamentale della dipendenza. Man mano è stato esteso anche alle esperienze single player, che effettivamente possono sembrare molto simili come attività a vedere 40 episodi di serie TV di fila o chiudersi in casa a leggere libri uno di fila all’altro. La domanda perciò non è del tutto errata, ma dipendenze da queste altre attività non sono state riscontrate con tale frequenza, o comunque sono ibride: non sono malati che fanno unicamente quello, ma che invece tendono ad evitare interazioni sociali dedicandosi ad altre attività compulsive indoor. Non è insomma il vedere la TV che definisce la loro malattia. Ciò nonostante l’obiezione è comprensibile, poiché tutti noi videogiocatori siamo convinti (a ragione) che altre attività di intrattenimento siano
molto meno demonizzate dei videogiochi.
Il fatto che ora si possa fare diagnosi porterà i videogiochi ad essere visti come un pericolo?
Da chi non si informa bene, sì. Ma d’altra parte questo capitava anche prima. Chi si occupa di neuroscienze invece sa bene fare la distinzione tra patologico e fisiologico: uno psichiatra non penserebbe mai che chi beve una birra il sabato con gli amici sia un alcolizzato. Perciò, se un medico vi ritiene dipendenti dai videogiochi solo perché sono una vostra passione, che non vi destruttura la vita e non porta alterazioni psico-fisiche, il consiglio è unicamente di cambiare medico. E se gli amici allo stesso modo vi riferiscono che i videogiochi sono da malati mentali, forse è bene anche cercare un nuovo giro di amici. Sono parole forti e provocatorie, ma ciò che intendo sottolineare è che il fatto che esistano criteri diagnostici è utile per separare con una linea netta patologia da passione: se ben utilizzati, questi criteri saranno di aiuto ai videogiocatori per far comprendere a pieno che il loro hobby non è un’ossessione. L’unica speranza è che si smetta di parlare a vanvera, per dedicarsi a ricerche più approfondite su un mondo che continua a crescere e a far innamorare milioni di gamer nel mondo.