Don’t Worry è un interessante e commovente film sulla vita di John Callahan, musicista, fumettista e vignettista statunitense tetraplegico diventato celebre grazie alla sua arte diversamente folle, con un umorismo tagliente che prende di mira le minoranze e le cosiddette categorie protette, ironizzando sugli ultimi della società per combattere in prima persona contro il destino di una vita spezzata. Perché ognuno, pur vittima della vita, può essere sempre speciale, se riesce a ridere di se stesso.
L’ultimo film voluto da Robin Williams
Una notte di bagordi alla ricerca dello sballo più estremo, tra super alcolici, luna park, donne bellissime e il miraggio della felicità, sempre rincorsa e mai trovata. Un semplice incidente d’auto ed ecco che il futuro cambia per sempre. La trama è basata su una vita spezzata e sul disperato tentativo di rimettere insieme tutti i pezzi. Paradossalmente, però, l’artista era già dannato prima di avere l’incidente e tutto il film è una lunga catarsi dalla dannazione eterna. Alcune trovate registiche sono molto azzeccate, come le sequenze verticali che fanno vedere alcuni momenti legati alla dipendenza dall’alcool. Disperazione. Solitudine. Paura di vivere. Forza di reagire. Pianto e riso isterico. Queste le emozioni contrastanti del film. Non solo, l’arte come ancora di salvezza da alcolismo e disabilità; due condizioni l’una consequenziale all’altra, dove lo status di tetraplegico vive con un ricordo della vita precedente, allo stesso modo disperata. Il destino ultimo del nostro eroe era quello di diventare un vignettista. Il resto è solo casualità, forse sfortuna. Dietro alla commovente storia del film c’è un grande nome di un artista a tutto tondo che, di fatto, è la mente principale responsabile della pellicola: il compianto Robin Williams, che, tanti anni prima, aveva proposto l’idea al regista del film, Gus Van Sant dopo aver conosciuto Callahan di persona. Nessuno, secondo l’attore, sarebbe stato più adatto di Van Sant a dirigere il film, poiché l’inventore del New Queer Cinema è uno dei simboli della cinematografia indipendente statunitense. Nel progetto originale, peraltro, Robin Williams avrebbe dovuto anche interpretare la parte principale, ma la sua recente scomparsa, prima di iniziare le riprese, ha portato al cambio di attore, col pur talentuoso Joaquin Phoenix, che ricordiamo in titoli come Da morire del 1995, dello stesso regista, o l’horror Signs del 2002. Anche il titolo stesso del film è stato ideato da Robin Williams, ed è una battuta decisamente calzante con lo stile del vignettista. Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot, da noi uscito col titolo semplificato di Don’t Worry, vuol dire proprio Non preoccupatevi, non andrà lontano a piedi. Nel cast figurano anche tre attori letteralmente di culto, che ricoprono ruoli secondari ma importanti nella trama, ovvero il geniale Jack Black, attore comico qui in un ruolo drammatico molto intenso, Udo Kier, iconico protagonista di pellicole dell’orrore quali Suspiria di Dario Argento del 1977 e Beth Ditto, la corpulenta cantante del gruppo statunitense dei Gossip, qui al suo debutto come attrice. La presenza di quest’ultima è decisamente simbolica, poiché Beth ha sempre lottato, nelle sue canzoni e come attivista, per i diritti delle minoranze. Manca solo Robin Williams, dunque, che però è presente nello spirito del film tutto il tempo.
L’umorismo estremo di John Callahan
Thank God It’s Friday è un modo di dire ormai celebre dello slang statunitense, spesso abbreviato con l’acronimo TGIF, La frase deriva in realtà dal musical cult omonimo diretto nel 1978 da Robert Klane. Cosa succederebbe, però, se questa frase fosse detta da Gesù Cristo sulla croce? Da un lato l’enorme ilarità dei lettori, dall’altro l’infiammarsi della comunità religiosa per il soggetto colpito dalla satira. Questo singolo eppure simbolico episodio fa capire quali siano i registri compositivi e i temi trattati dall’artista statunitense. Andando oltre le divinità religiose, che apparivano spesso nelle vignette di John Callahan, le vittime erano sempre appartenenti a qualche minoranza, come del resto l’artista stesso, che esorcizzava la sua condizione di paraplegico alcolista, mettendo in scena proprio le categorie su cui è più politicamente scorretto scherzare. Chi meglio di un disabile, del resto, sa dove andare a colpire per fare dell’autoironia? Vignette disegnate spesso con la sola bocca o con movimenti difficoltosi degli arti paralizzati. I soggetti sono sempre diversamente abili, gay, alcolisti disperati, cattolici troppo ferventi, obesi patologici, barboni e mendicanti, neri, o, come diceva l’artista, diversamente bianchi, oltre che gli immancabili politici, magari mescolando tutte le cose assieme. Non è raro sentire frasi che suonano come un pugno nello stomaco, dedicate magari a persone di colore omosessuali che offendono disabili obesi, ma che oggi, proprio grazie alle sue vignette, hanno aperto la strada per l’umorismo estremo di serie televisive come South Park. Non è da sottovalutare il fatto che, dalla giovane età di ventuno anni, l’artista è stato costretto a vivere su una sedia a rotelle, non solo con le gambe paralizzate, ma con tutto il corpo, dal collo in giù, nella condizione di tetraplegico. La definizione dell’autore oggi più celebre è “l’uomo più divertente su quattro ruote”, ideata da Robin Williams dopo aver conosciuto personalmente John Callahan. Una vita intera passata sulla sedia a rotelle, con una tetraplegia difficile da gestire.
Verismo fotografico per personaggi reali
La pellicola ha per certi versi l’impostazione da documentario, alternata però a momenti in cui la recitazione prende il sopravvento. Il periodo più approfondito è proprio la parte della lotta all’alcolismo. L’intero Don’t Worry è costituito da una sequenza di scene legate tra loro dal desiderio di vivere, misto alla disperazione per qualcosa che non tornerà mai più. Correre, camminare, essere liberi e far l’amore sono ormai solo ricordi per il nostro artista disperato e alcolizzato, ma la voglia di superare la dipendenza dalla sostanza, responsabile della sua condizione, è più forte di qualunque disperazione. L’arte, più di tutto, salverà dal baratro il grande eroe del film. I ginnasti nel parco, una delle misteriose apparizioni del film, sono forse un simbolo di quello che mai più potrà essere: una vita di soli ricordi, nonostante la presenza di Annu, una ragazza splendida che decide di prendersi cura dell’artista andando ben oltre il ruolo di infermiera. L’attrice newyorkese Rooney Mara interpreta decisamente bene il suo personaggio, quasi un vero e proprio angelo custode, innamorata dell’anima dell’artista, prima che sua fisioterapista. Una riabilitazione umana, prima che una semplice assistenza sessuale. Proprio quando la passionalità era ormai solo un ricordo di tempi lontani, oltretutto. Film fortemente basato su dialoghi e introspezione, Don’t Worry è una vera e propria bomba di emozioni per lo spettatore, che a volte cerca di immedesimarsi nel personaggio, in altre è rapito o disgustato dal suo umorismo estremo, politicamente scorretto e assolutamente surreale. Si passa con estrema leggerezza compositiva dalla filosofia spicciola alla parodia clericale in cui appaiono alti prelati con un posteriore troppo sporgente, o disabili di colore che litigano con donne dalla dubbia moralità. Un vero pugno nello stomaco, anche per i gusti libertari degli anni settanta. Talmente estremo come umorismo che il Portand State Vanguard riceve notevoli proteste perché l’impostazione satirica è troppo pungente. Nella cura di determinati temi supera persino artisti dell’umorismo estremo contemporanei, come ad esempio Seth MacFarlane, autore geniale de I Griffin.
Il complesso rapporto tra psicanalista e paziente
L’intero film si basa sul semplice assioma di riuscire ad ammettere che il vero problema non è la disabilità, ma la sua causa, ovvero l’alcolismo. Adesso Callahan è un paraplegico, ma lo è solamente perché amava troppo bere e darsi alla bella vita, sempre a caccia di donne facili per una notte di svago frivolo in squallidi bar di provincia. Questo è ammettere la verità, questo è capire perché si sta buttando la propria vita. L’analista lo stuzzica e l’artista non può che comprendere meglio la ragione del tutto. Uno degli aspetti più toccanti di Don’t Worry è il complesso rapporto con la madre, che ha abbandonato Callahan quando era piccolo. Di lei il disperato artista sa solo tre cose: la donna è irlandese/americana, ha i capelli rossi, faceva l’insegnante e soprattutto… non lo voleva. Anzi, sono quattro, come dice sempre il “tormentone” del protagonista. L’arte di una mente disconnessa è in realtà l’unico collante che lo lega alla realtà, e l’apparire quasi onirico delle vignette originali di Callahan durante il film Don’t Worry porta lo spettatore stesso a vivere sospeso tra realtà e immaginazione. A questa impostazione scenografica e registica si uniforma, ovviamente, quella della fotografia del film. Primi piani strettissimi scavano dentro in maniera quasi dolorosa, mettono a nudo tutto, non solo le donnine disegnate da Callaghan, ma anche l’animo stesso dei personaggi e coinvolgono lo spettatore come non mai, in una pellicola intensa e dal lirismo quasi aulico. Una storia autoriale legata a un artista sopra le righe. Scorretta, cattiva e sboccata? No, solo con personaggi veri. Talmente reali da far male per la loro forza e la loro capacità di bucare lo schermo e rimanerci dentro. Quella che il protagonista del film Don’t Worry sta passando, di fatto, è una vera e propria moderna Odissea, con momenti che restano nel cuore. Come sanno bene quelli che, per loro sfortuna, hanno avuto a che fare con la dipendenza da alcol, ci sono dei passi precisi che i gruppi di alcolisti anonimi impongono di seguire. Quasi commovente l’incontro del passo nove della terapia, dove è necessario fare pace con tutti e affrontare i nodi da sciogliere in sospeso. Uno dei momenti più forti del film verrà affrontato con un personaggio toccante interpretato da Jack Black, che è all’opposto delle sue macchiette tradizionali. Ma anche la pace con un altro personaggio, che da sempre è in un rapporto conflittuale con l’artista di Portland. Callahan sarà davvero capace di fare questi passi?
Don’t Worry è una bomba emozionale da due ore. Una storia intensa, drammatica ma con momenti di ilarità sopra le righe degne del grande artista scomparso di cui si raccontano le avventure e il grande desiderio di riscatto per una vita ai limiti che, come ci dice lo stesso Callahan, era andata alla deriva molto prima di avere l’incidente che lo avrebbe paralizzato per sempre. Una storia forte, una fotografia e regia ai massimi livelli per un regista come Gus Van Sant che riesce in pieno a coinvolgere lo spettatore. Una biografia interessante per un artista ai limiti. Morto nel 2010 e ancora oggi ricordato per il suo umorismo tagliente e politicamente scorretto. Emozioni, disegni e vite al limite, arte come catarsi di una vita spezzata che, solo nel dramma, acquista significato. Un film sulle perdite delle persone e sul senso stesso della vita. Toccante e indimenticabile.