Ogni volta che torna a mostrarsi alle fameliche mani di un pubblico che, nel suo caso, evidenzia spesso comprensibili segni di isteria collettiva, diventa sempre più difficile parlare di Cyberpunk 2077. Il sequel poligonale del gioco di ruolo di Mike Pondsmith, caro a una ristretta cerchia di appassionati diventata improvvisamente enorme, si era già mostrato durante lo scorso E3 in una estesa e convincente demo, un assaggio a dir poco luculliano che è bastato a saziare chiunque per un anno intero (personalmente ho perso il conto di quante volte ho rivisto quel video) e che, però, ha avuto anche il subdolo effetto collaterale di far salire l’hype a livelli stellari.
Brutta bestia, l’hype: se non continua a crescere, come una dannatissima iperbole, ma, al contrario, comprensibilmente rallenta, è sempre difficilissimo farci i conti. Tradotto in termini di critica videoludica, è esattamente quel che è successo a noi: ci aspettavamo di continuare beatamente a sognare, senza preoccupazioni né problemi, e invece siamo stati riportati sulla Terra, per via di una demo che ha finalmente cominciato a svelare l’esistenza di qualche piccola backdoor intrufolatasi nel cyberspazio di CD Projekt RED. Se, però, nel caso di qualsiasi altro videogioco ci sarebbe da rattristarsi di fronte a una simile notizia, qui c’è addirittura di che gioire, dato che, se da un lato l’individuare qualche difetto in un mare di esaltazione aiuta a evidenziare la strada che il team sta percorrendo per arrivare il più possibile vicino all’obiettivo finale, dall’altro l’iniziale impulso creativo rimane, in potenza, del tutto inalterato, e può essere espresso in ogni momento da qui al giorno del lancio.
Cyberpunk 2077 è un videogioco sconfinato
Cyberpunk 2077, a dire il vero, ha già mostrato (e in maniera lampante) questa carica potenziale durante la stessa demo che abbiamo visto, ambientata in una nuova location, ovvero il distretto di Pacifica, uno dei sei in cui è suddivisa Night City. Un posto molto particolare, che trasuda da tutti i pori l’essenza transumanista dell’universo immaginato da Pondsmith ed è visivamente ed esteticamente meraviglioso, dalla punta dei palazzi ai lucidi pavimenti, dalla nebbiolina color arancio che pervade i cieli, attraversata dai raggi arancio di un sole stanco, alle luci al neon che illuminano gli ambienti chiusi e asettici. Si tratta di un luogo costruito da megacorporazioni finanziate dal governo degli Stati Uniti, pensato per ospitare enormi grattacieli e una sfrontata ostentazione del lusso più sfrenato: proprio sul più bello, al momento del tracollo della società è stato poi abbandonato, non ancora completato e con cantieri in bella vista, il che ha causato la proliferazione di clan malavitosi di ogni specie, che ne controllano il territorio. Durante la lunga missione che ci è stata mostrata, e che sarà localizzata verso la metà della storia, V entra in contatto proprio con uno di questi clan, i creoli Voodoo Boys, capeggiati da un certo Placide: quest’ultimo è il contatto che gli serve per capire come accedere al misterioso chip che si ritrova impiantato nel collo e che, si dice, contiene il segreto dell’immortalità. Il chip gli causa anche effetti collaterali, fra cui la costante presenza di una proiezione olografica di Johnny Silverhand, personaggio ricorrente nella lore dell’RPG cartaceo, che solo lui può vedere e che, dotato di un umorismo tutto suo, funge da “spalla” per il protagonista e di tanto in tanto gli dispensa consigli. Nella demo, V doveva indagare su segnali di origine sconosciuta provenienti da un misterioso furgone di sorveglianza, situato all’interno di un grande centro commerciale, abitato dai De Animals, una gang criminale. Eppure, malgrado il lungo arco narrativo a cui siamo stati introdotti, noi non ci siamo fatti trarre in inganno dal cercare di capire qualcosa della vicenda a cui lo spezzone visto si riferiva, abilmente nascosta dietro l’ingombrante presenza di Johnny, e ci siamo concentrati sull’osservare ogni più piccolo dettaglio, riscoprendo molti fra i motivi per cui CD Projekt è così amata dal suo pubblico.
A cominciare, per esempio, dalla schermata di creazione del personaggio, vista nei primi istanti, che ci ha confermato un dettaglio non da sottovalutare: Cyberpunk 2077 sarà un gioco di ruolo con tutti i crismi, con la possibilità di realizzare build diversificate anche all’interno della stessa classe e una profondità ben diversa da The Witcher 3. La possibilità di plasmare il protagonista in un modo il più possibile fedele alla controparte carta e penna, assicurano in CD Projekt, è di vitale importanza per far sì che il titolo arrivi sul mercato così come è stato pensato, a cominciare dal passato del protagonista, che riprende un concetto già introdotto nei videogiochi di ruolo più classici, fra cui i Mass Effect, per citarne alcuni. Si può scegliere fra i profili Nomad, Street Kid e Corporate, che danno una prima connotazione a V e gli permettono di gestire in modi differenti il modo in cui interagisce con l’ambiente circostante e affronta i dialoghi, con più o meno opzioni a disposizione, per esempio. Oltre all’aspetto fisico, non manca la possibilità di scegliere il vestiario, diviso in sei slot differenti (con l’iconica giacca da Samurai in bella vista), e regolare gli attributi, sempre uguali a prescindere dalla classe: Costituzione, Riflessi, Tecnologia, Fascino e Intelligenza (dunque soltanto cinque dei nove previsti in Cyberpunk 2020). Gli attributi possono avere un valore che va da 2 a 10: sarebbe interessante capire se gli innesti cibernetici possano anche qui avere su un qualche tipo di influenza sui vari parametri, permettendo di aumentarli oltre il limite massimo.
Nei quarantacinque minuti di prova, volati come il vento, abbiamo visto diverse altre volte il menu dell’inventario, non potendo fare a meno di notare gli slot per gli innesti, il cui impatto pratico è ancora tutto da chiarire, e il menu dedicato al crafting. Quel che ci è parso interessante, però, è il modo totalmente libero in cui il protagonista può spendere i suoi punti abilità, nell’ambito di un class system il più possibile fluido e dai confini smussati, anche grazie alla possibilità di livellare le proprie abilità semplicemente usandole, nell’ambito di un sistema che ricorda molto quello di The Elder Scrolls V: Skyrim. V, poi, può fare affidamento su un importante elemento, il Cred, una sorta di ibrido fra un sistema di notorietà, legato alla possibilità di accedere a nuove missioni e contratti nel sottobosco di Night City, e una valuta alternativa (simile all’Eridium di Borderlands o ai crediti di Days Gone, per intenderci) in grado di sbloccare nuovi venditori, e quindi nuove armi e innesti.
Neanche il tempo di iniziare l’incarico assegnatoci che ci ritroviamo ad osservare, estasiati, ogni angolo di Pacifica si pari di fronte alla telecamera, riscoprendo un mai sopito amore per l’estetica cyberpunk, che CD Projekt è riuscita così bene a trasporre nella sua opera. Uno dei pregi più grandi dell’avventura (re)immaginata dallo studio polacco, che poi è anche il motivo per cui è riuscito a catalizzare così tanto l’attenzione su di sé, è il suo dipingere un mondo coerente all’opera originale come The Warriors potrebbe esserlo con l’omonimo romanzo, ma soprattutto un mondo che, nonostante il cibo non artificiale sia ormai stato bandito e delle persone non rimangano che scampoli di umanità organica, non è mai stato così vivo. Non è un caso, d’altronde, che Night City si sia mostrata di giorno in quasi tutti i trailer finora visti. Realizzare una città simile in cui sia sempre notte è semplicissimo, ma lo è molto meno mantenere la stessa atmosfera dopo il levar del sole: questo CD Projekt lo sa, e la nostra sensazione è che, per quanto riguarda l’ambientazione, voglia tenere le sue carte migliori coperte fino alla fine.
Uno step evolutivo importante per i videogiochi di ruolo
Una delle caratteristiche fondanti che CD Projekt ha tenuto a mostrarci è stato il sistema di dialoghi di Cyberpunk 2077, che denota tutta l’esperienza e la maturità acquisita dalla software house est europea in termini di gestione del flusso narrativo, mai visto così dinamico e naturale neppure in un videogioco di Quantic Dream, figurarsi in un RPG in cui le conversazioni sono migliaia e spesso sempre uguali a sé stesse. In quella presentazione abbiamo davvero visto uno scampolo del futuro dei videogiochi di ruolo: quel che ci ha colpito, in particolare, è il modo in cui i dialoghi tendono ad amalgamarsi con ogni tipo di interazione, ambientale e umana, e il come vengano automaticamente regolati in base a quel che accade attorno al protagonista. E non si parla soltanto di qualche trovata di regia, con campi e controcampi studiati per l’occasione, ma di qualcosa di più, di possibili scelte in cui le nostre abilità di intuizione sono soltanto la punta dell’iceberg. Non importa quale “V” decidiamo di creare, se un abilissimo netrunner o un picchiatore senza cervello: avremo sempre e comunque opzioni per cavarcela e trarre il massimo da ogni situazione, il che, in teoria e stando alle promesse del team, dovrebbe sfumare i contorni fra ogni tipo di personaggio in una maniera mai vista ed eliminare uno dei più atavici problemi che affliggono i giochi di ruolo: la dicotomia fra build fisiche, con opzioni legate quasi soltanto alla forza bruta, e personaggi basati sugli attributi mentali, con maggiori opzioni di dialogo. I dialoghi, sembra quasi dirci CD Projekt, non sono soltanto asettici campi di testo da selezionare, ma è giusto che, in senso più generale, si leghino e siano una rappresentazione dell'”attitude” del proprio personaggio. Le opzioni e le possibilità sono ovviamente legate “a monte” anche alla tipologia di personaggio scelto, ma ciò non significa che non possa essere possibile ottenere risultati simili con due build completamente differenti: piuttosto, ci viene da ipotizzare che i vantaggi ottenuti scegliendo l’una o l’altra siano molto più sottili e non precludano quindi completamente intere porzioni di gameplay.
Volete un esempio, anche banale, di come funziona questo sistema? Nelle fasi iniziali della dimostrazione i ragazzi del team di sviluppo hanno dato il via a un dialogo con Placide, il capo dei Voodoo Boys, utilizzando un V buildato melée, quindi senza troppe opzioni per cavarsela con la parlantina. Quando il suo interlocutore ha cercato di “collegare” V al suo computer, tramite l’innesto cibernetico sul braccio (operazione che, presumibilmente, avremmo potuto convincerlo a non fare), è comparso su schermo un QTE legato al tempismo, che ha permesso di ritrarre l’arto e rifiutarsi di stringere l’accordo. Suo malgrado, però, subito dopo il nostro ha comunque dovuto cedere, consentendo a Placide di innestargli un chip di controllo per spiarlo ed evitare così un possibile doppio gioco nel corso della missione. Sappiamo che nel corso dell’avventura ci saranno altri momenti simili, ma non è ancora chiarissimo, in realtà, se e come queste possibilità si legheranno con la narrativa, andando eventualmente a modificare le quest e le interazioni con gli NPC. Subito dopo ci veniva data l’ennesima opzione aggiuntiva, legata a un altro personaggio che avvisava Placide di problemi sorti nella stanza di fianco: in questo caso era possibile, volendo, suggerirgli di andare a controllare, in modo da andare insieme a lui in un luogo che altrimenti non avremmo visitato e terminare il dialogo in maniera differente. Tutto ciò, a quanto pare, non dovrebbe rappresentare che un assaggio di quanto è possibile fare in Cyberpunk 2077, sperimentando con le possibilità concesse dal monumentale comparto narrativo.
L’intermezzo centrale è stato invece focalizzato su una breve ma intensa sezione in sella alla moto (con tanto di stazioni radio), che ci è parsa fra gli elementi più deboli e ancora da rifinire, con un handling fin troppo leggero e controlli legnosetti e imprecisi, soprattutto passando dalla tradizionale terza persona (visuale predefinita in un veicolo) alla prima. La seconda parte della demo si è invece concentrata sul mostrare i muscoli del gioco, approfondendo il comparto legato al sistema di combattimento, agevolmente esemplificato dalle due build che gli sviluppatori hanno utilizzato a mo’ di esempio: una incentrata su forza e costituzione, con una grande maestria nell’uso di qualsiasi tipo di arma da fuoco, l’altra, molto più cerebrale, basata sull’hacking, sul netrunning e sullo stealth. È proprio qui, se si esclude la fase di guida (su cui comunque bisognerà tornare in seguito), che Cyberpunk 2077 inizia a mostrare i primi scricchiolii, in parte, probabilmente, anche legati allo stadio di sviluppo, ancora non conclusivo. In linea di massima, comunque, quanto abbiamo visto ci ha convinto quando c’è da sparare poco e pensare tanto: violare un computer o una telecamera di sicurezza è infatti a sua volta una scelta, e può precludere altre importanti possibilità più avanti, anche nel corso della stessa missione. Certe decisioni vanno ponderate molto attentamente: una strategia sbagliata può portare fin da subito un incarico a non concludersi nella maniera ottimale, e i successivi tentativi di rimettere le cose a posto possono poi risultare soltanto controproducenti.
Lo stealth vince sulla forza bruta
Tenendo un basso profilo si possono scegliere diversi approcci ed eliminare chiunque in maniera furtiva, magari hackerando un drone o sfruttando le routine comportamentali dei personaggi per far sì che le loro attività si ritorcano contro di loro: in questo senso, se ne assumiamo il controllo, anche una panca da palestra può diventare una spietata assassina, eliminando senza pietà lo sgherro sotto di lei. I corpi di tutti i nemici abbattuti, poi, possono essere nascosti per non essere visti, utilizzati come scudi nel caso in cui li prendiamo alle spalle e così via. Insomma, un vero e proprio festival interattivo, che consente ai giocatori che non amano sprecare troppi proiettili di agire come meglio credono. Utilizzando il personaggio stealth, poi, era possibile fare uso di una frusta in grado sia di essere utilizzata per abbattimenti silenziosi, sia in modo offensivo per eseguire l’hacking di nemici lontani tramite un minigioco, in modo da costringerli a suicidarsi compiendo azioni anche ben poco ortodosse, fra cui lanciarsi una granata fra i piedi con le braccia cibernetiche. A livello di game design tutto sembra già da ora ben congegnato: il problema, più che altro, sta nella responsività delle armi, che ci sono sembrate offrire un feeling molto simile ai Deus Ex (non certo campioni di divertimento sotto il profilo dello shooting) e mancano di alcuni, minuscoli accorgimenti volti a renderle un po’ meno selvagge e imprevedibili.
In generale, l’esperienza ci è sembrata molto meno “smussata” se si decide di privilegiare l’attacco frontale: in questo caso, per quel che s’è visto, il tutto ci è parso molto confuso e ben poco tattico. Abbiamo osservato V massacrare chiunque senza alcun criterio, limitandosi a dominare il campo di battaglia come un vero e proprio Terminator, impiegando un vasto arsenale, da enormi mitragliatori ad armi melée come spade e coltelli da lancio, ma sfruttando relativamente poco gli elementi ambientali come le coperture o gli innesti, se si esclude la possibilità di staccare torrette automatiche per aumentare la dose di piombo e di danni inferti. La componente da sparatutto dura e pura di Cyberpunk 2077, insomma, è al momento decisamente bocciata, anche perché basterebbe poco per renderla quantomeno decente. Sappiamo benissimo che il titolo di CD Projekt non punta ad essere “quel” tipo di shooter, ma non possiamo nemmeno soprassedere a cuor leggero su una simile discontinuità qualitativa con il resto del gioco. Anche da questo punto di vista le idee messe in campo sembrano buone, e devono solamente essere raffinate: i nemici che V affronta, ad esempio, sono in grado di metterlo più volte in difficoltà, grazie ad abilità come un teletrasporto a breve distanza che può confondere la mira del protagonista. Abbiamo poi visto il nostro combattere contro un boss, una donna di nome Sasquatch, capo degli Animals, dotata di un enorme martello in grado di eseguire un terrificante slam potenziato: in questo caso, la missione prevedeva di continuare a schivare i suoi attacchi e distruggere un chip posto sulla sua schiena, uccidendola o lasciandola opzionalmente in fin di vita (il che, diciamocelo, ci è sembrato un po’ un volersi salvare in calcio d’angolo sulla questione del finire il gioco senza uccidere nessuno).
La demo si è poi conclusa in una maniera che sarebbe difficile immaginare più suggestiva, con V costretto ad entrare in una sorta di vasca refrigeratrice, simile a quella già vista nel filmato della scorsa estate, e connettersi così al cyberspazio, una sorta di rappresentazione visiva a tinte nerastre, punteggiate da sprazzi di colore, del mondo digitale di Cyberpunk 2077, mondo in cui si dice che Alt Cunningham, leggendaria netrunner, abbia trovato la vita eterna caricandovi la propria coscienza. Proprio lui, a quanto pare, è uno degli obiettivi da scovare in quel luogo fatto di chiaroscuri e forme indistinte: sul più bello, però, proprio in quel momento la demo si conclude, lasciandoci con un palmo di naso e tante suggestioni e pensieri vorticanti in mente. Che, stavolta no, non verranno placati così facilmente fino al prossimo 16 aprile.
Non serve un abile netrunner per capire che, con Cyberpunk 2077, CD Projekt RED sta realizzando qualcosa di mastodontico: un videogioco destinato a far parlare di sé per molto tempo a venire anche dopo il suo arrivo nei negozi, perché caratterizzato da una visione del medium unica sotto tutti i punti di vista, oltre che da intenti produttivi i cui precedenti si contano sulle dita di una mano. Tutto questo, tolto ogni giudizio critico, è ormai innegabile e chiaro a tutti. Quel che rimane da chiedersi, mentre ci si interroga sull’effettiva qualità del prodotto finale, è probabilmente legato all’eredità culturale di un videogioco simile, che, non senza precedenti ma forse facendolo per la prima volta con piena consapevolezza di cosa può e non può fare e di dove può spingersi, sta utilizzando il medium videoludico per arricchire il valore di un’opera nata altrove. È stata CD Projekt stessa a dirlo, implicitamente, quando ha fatto capire di non voler realizzare “un altro The Witcher” solo per vendere ancora e sempre di più. Che questi signori possano rappresentare per il videogioco quel che Orson Welles è stato per il cinema? Forse. Noi, intanto, non vediamo l’ora di immergerci nella Night City del 2077. Questi dieci mesi che ci separano da quel momento non sono mai stati così lunghi.