Barbari Recensione: di Storia e di stereotipi

Barbari

Faceva freddo in Germania in quel settembre del 9 d.C. mentre le legioni dei Romani marciavano, sgranate e stanche, di ritorno negli accampamenti invernali. Faceva freddo, e pioveva. O almeno è così che mi sono sempre immaginato il clima. Uggioso, umido, in una parola, triste. Il legato romano in Germania, Publio Quintilio Varo, marciava alla testa dell’esercito, il cavallo al passo con gli zoccoli che affondavano nel fango. Aristocratico abituato ai lussi e allo sfarzo della capitale imperiale, doveva odiare quel clima, il freddo pungente e umido che penetra le ossa, la pioggia fitta, tagliente, costante. Della Germania Varo non conosceva nulla, o quasi nulla, per lui era un ambiente alieno. Aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a orientarsi, che lo guidasse. Per questo aveva scelto Arminio. Un fedele soldato di Roma, figlio però di Segimero, capo dei Cherusci. Un uomo del posto. Un uomo che conosceva la Germania.

Fu Arminio a consigliare a Varo di condurre le sue tre legioni attraverso la selva di Teutoburgo in quel settembre del 9 d.C. E Varo si fidò di lui abbastanza da seguire quel consiglio, conducendo così più di 18.000 uomini in un vero inferno. Teutoburgo divenne un carnaio mentre la trappola ordita da Arminio scattava, prendendosi la vita di Varo, prendendosi tre legioni, sconfiggendo Roma. Fu una disfatta quasi senza precedenti. Si dice che, dopo aver ricevuto la notizia, Augusto fosse inconsolabile, che si lasciasse crescere una lunga barba e vagasse per la sua casa gridando contro il defunto Varo perché gli restituisse quegli uomini perduti.

La sconfitta della selva di Teutoburgo segna un punto di non ritorno nella storia dei rapporti tra Roma e la Germania, ma soprattutto segna un momento di forte affermazione dell’identità germanica, un momento che sarebbe stato utilizzato in epoche successive, in funzione propagandistica e nazionalistica. Sul sito della battaglia di Teutoburgo infatti, nel 1875, il Kaiser Guglielmo II fece costruire l’Hermannsdenkmal, il monumento ad Arminio. L’onda lunga di questa propaganda nazionalistica sembra aver attraversato le epoche, ed essersi reincarnata anche nella settima arte (sempre che le serie ne facciano parte), nella forma di Barbari, la nuovissima serie tv tedesca originale Netflix prodotta da Gaumont su una scenaggiatura firmata da Arne Nolting, Jean-Martin Scharf e Andreas Heckmann.

Barbari: ah, ma non è Vikings…

Germania, 9 d.C. I Romani irrompono nel tranquillo villaggio dei Cherusci governato da Segimer, pretendendo in modo arrogante il pagamento del tributo dovuto a Roma. Segimer è combattuto: sa che il suo popolo non può permettersi di concedere ai Romani ciò che chiedono, ma d’altra parte sa anche benissimo che una guerra contro le legioni sarebbe impossibile da vincere. Mentre Segeste prova a collaborare con gli invasori per evitare lo scontro, sua figlia Thusnelda e il giovane guerriero Folkwin sono orgogliosamente decisi ad affrontarli. Mentre i due escogitano un piano per sottrarre l’insegna dell’aquila alle legioni, fa il suo arrivo nel campo romano Arminio, che un tempo si chiamava Ari, figlio di Segimer, e amico d’infanzia di Thusnelda e Folkwin. Un ritorno, il suo, che (dovrebbe) cambiare ogni cosa.

La trama di Barbari sta più o meno tutta qui. C’è poco di complesso nell’intreccio della vicenda che deve molto, si percepisce apertamente, ad alcune opere cinematografiche e seriali di tipo storico che vertono, più o meno, sullo stesso tema. Se da una parte c’è l’influenza (inevitabile, vista anche la presenza del regista Steve Saint Ledger) di Vikings, con le sue ambientazioni belle e selvagge, e i suoi personaggi fieri e grandi, violenti e feroci, dall’altra non si può non avvertire tutta l’influenza di un grande classico come Braveheart. Con il film premio Oscar di Mel Gibson Barbari condivide moltissimi elementi di trama, oltre che una clamorosa, evidente, smaccata parzialità nella ricostruzione storica.

In ogni minuto di questa serie risuona fortissimo l’afflato nazionalistico insito nella sceneggiatura, una volontà di affermare i Germani (o meglio, le tribù dei Germani) come l’unico popolo libero, come le vittime resilienti di una dominazione ingiusta, come i precursori della grandezza del popolo tedesco. Insomma la grandeur (passatemi il francesismo) patriottica permea ogni episodio, ogni scena, insinuandosi a tutti i livelli, da quello concettuale a quello visivo, fino ad entrare anche nella scelta del titolo: Barbari, il termine dispregiativo con il quale i Romani indicavano i popoli selvaggi che vivevano al di fuori dei loro confini, che diventa una parola da esibire con orgoglio e con sfida. La serie ci presenta un popolo fiero, orgoglioso, che non intende chinarsi, che vuole resistere, moralmente ed eticamente superiore ai Romani, che ci vengono dipinti come avidi, gretti, ciechi conquistatori, arroganti e sprezzanti. Persino l’aspetto esteriore dei protagonisti riflette questo perentorio giudizio morale: tutti alti, belli, definiti e biondi i Germani (eccetto Segeste, l’odioso “collaborazionista”), mentre i Romani, e in particolare Varo (un pur bravo Gaetano Aronica), hanno un aspetto innaturale, quasi grottesto, artefatto. Insomma una visione oltremodo semplicistica della Storia in cui ci sono un buono e un cattivo, in cui ci sono il bianco e il nero, nettamente divisi da una rigida linea di demarcazione. Senza sfumature. Una visione spudoratamente dicotomica che Barbari, come detto, eredita da Braveheart, così come altri elementi: la storia d’amore contrastata fatta d’incontri clandestini al chiaro di luna tra Thusneda e Folkwin (che diventa poi un convulso rapporto a tre con l’ingresso di Arminio ed evolve in maniera frettolosa e poco approfondita), il tema dei buoni selvaggi opposti al dominio opprimente del più forte, la situazione di grande svantaggio, quasi da underdogs, dei protagonisti nei confronti dei loro nemici. Una narrativa vecchia come il mondo, eppure sempre efficace per far immedesimare lo spettatore. Per portarlo a fare il tifo. Insomma quel tipo di fanservice che fa sempre ascolti.

Storicità a metà

La principale difficoltà che ogni film o serie tv storica deve affrontare è la credibilità della ricostruzione. Negli anni il cinema ha finito per creare dei falsi miti storici che, pur essendo completamente infondati, hanno attecchito nella società di massa e sono, al giorno d’oggi, considerati come incontrovertibili verità. Un esempio famoso è quello dello ius primae noctis, di cui si parla proprio in Braveheart. Un palese falso storico che pure molti sono portati a ritenere vero, proprio perché è un aspetto saliente del film di Mel Gibson. Tuttavia, almeno inizialmente, Barbari mi aveva stupito per una ricostruzione storica abbastanza precisa, anche nei dettagli. Ho apprezzato, ad esempio, la scelta di far parlare latino ai personaggi Romani (e soprattutto di fargli usare la cosiddetta “pronuncia restituta“, quella più simile al latino classico). È abbastanza evidente che, in questo frangente, gli sceneggiatori abbiano avuto alle spalle un filologo classico (tra l’altro non troppo difficile da reperire in Germania, la patria della scienza filologica). Bisognerebbe però capire, allora, perché i Germani parlino in un limpido tedesco contemporaneo e non in una lingua germanica o proto-germanica.

Allo stesso modo, la serie utilizza il personaggio di Thusnelda per mostrarci come le donne germaniche fossero emancipate, più libere rispetto al mondo romano, e come potessero persino combattere in prima linea, ma lo fa riducendo il discorso a quel solo personaggio: di fatto non c’è nessun’altra donna rilevante tra le fila dei Germani al di fuori della nostra protagonista, che ricorda un po’ la Lagherta di Vikings, solo con una connessione più profonda (pur sempre, però, trattata in maniera grossolana, un po’ superficiale) con quella religiosità germanica fatta di divinità oscure e sanguinose, e che infine la porterà a rivestire il suo ruolo di guerriera.

C’è poi tutta una serie di elementi fortemente stereotipati, come i riti oscuri legati alla terra e alle tenebre, le maledizioni pronunciate sussurrando e facendo voto alle divinità e soprattutto la scena che ci mostra la stessa Thusnelda esaminata dal suo promesso sposo come se fosse un cavallo. E ancora, la ricostruzione dell’atteggiamento romano dipende profondamente dai preconcetti con cui la serie sembra essere partita. Se è pur vero che il governo di Varo in Germania fu particolarmente duro e spietato, e che l’arroganza fu uno dei gravi difetti che gli stessi Romani finirono per rimproverarsi un secolo dopo Teutoburgo (Tacito, col suo discorso di Calgaco, insegna), va comunque riconosciuto che non tutti i Romani erano biechi e gretti, e che molti cercavano di capire i barbari, di integrarli (come del resto avevano fatto con altri, innumerevoli popoli barbarici prima di loro). La stessa battuta secondo cui i Romani non sarebbero in grado di distinguere i Germani sulla base della loro tribù di appartenenza è sostanzialmente un falso storico: Cherusci, Catti, Bructeri, Marsi, i nomi coi quali i barbari definiscono sé stessi nella serie, ci vengono dagli autori romani, i primi a sentire la necessità di classificare quel pulviscolo disorganizzato di popoli in lotta tra loro.

Un ambiente mozzafiato

 

Se c’è un aspetto impossibile da criticare in questa serie è sicuramente l’impatto visivo. Gli ambienti cupi e uggiosi hanno una bellezza selvaggia e sconvolgente, e sono mostrati con maestria da una regia precisa e attenta. Sotto l’aspetto tecnico Barbari è veramente un ottimo lavoro, prodotto con molta cura. Altamente scenografici sono anche i costumi, che, seppur non sempre storicamente accuratissimi, costituiscono un valore aggiunto. Sempre interessante l’uso della luce e delle ombre, che spesso giocano a rincorrersi sui volti dei protagonisti (in particolare durante i notturni ambientati nella foresta al chiaro di luna) regalando intensità alle scene. La caotica e sanguinosa battaglia finale ha un impatto davvero poderoso. A sottolineare questi momenti interviene un comparto sonoro assolutamente all’altezza, anche se mai eccessivamente brillante o memorabile.

Per chiudere, è necessario un accenno al cast: se Jeanne Goursaud è credibile e forte nel ruolo di Thusnelda (una delle note positive della serie a mio parere), David Schutter ha dato vita a un Folkwin non del tutto convincente, troppo infantile e ingenuo per essere vero, ed eccessivamente monodimensionale, mentre l’interpretazione di Laurence Rupp nel ruolo di Ari/Arminio, pur intensa e tormentata (e, fatto strano, ben poco eroica), sembra a tratti un po’ legnosa. Gli va comunque riconosciuto di aver ben caratterizzato un personaggio che mi è apparso vagamente penalizzato dalla sceneggiatura, banalizzato da un percorso molto standard di redenzione/vendetta: conoscendo la storia mi sarei aspettato un Arminio più forte, più impetuoso, più protagonista, mentre mi è sembrato un personaggio un po’ sarcificato nella creazione di una sottotrama stereotipata. Piccola nota infine per Gaetano Aronica, che si ritrova prigioniero di un personaggio che, anche a livello visivo, è grottesco fino ai limiti del caricaturale, con quella testa così enorme rispetto al corpo, eppure riesce comunque in una prestazione attoriale più che dignitosa.

In conclusione, Barbari è una serie tv per certi aspetti assolutamente godibile, soprattutto sul piano tecnico. Tuttavia la retorica dei Germani, popolo libero, che si oppone all’oppressore Romano, semplicistica e insistita fino all’eccesso, rende spesso gli episodi stucchevoli e poco coinvolgenti. La pretesa di presentare una Storia fatta di bianco e nero, priva di sfumature o zone grigie, è francamente seccante e non solo toglie credibilità alla narrazione (che pure è tratta da una storia vera), ma soprattutto rende la visione della serie abbastanza travagliata. Insomma, un’opera che va guardata senza pretese eccessive, con la consapevolezza di quelli che sono i suoi intenti “pubblicitari”, come se fosse un fantasy. E se per apprezzare una serie storica bisogna pensare che sia un fantasy, forse c’è qualcosa che non va.