Voglio affermarlo fin dall’inizio della recensione, It Takes Two è un videogioco imperdibile. Josef Fares e Hazelight Studios colpiscono ancora, più duro e con più efficacia: dritto al cuore. Al cuore dei videogiocatori, tutti, grazie a citazioni onnipresenti e SEMPRE azzeccate; ma, anche, al cuore di chiunque abbastanza sensibile da cogliere il messaggio nascosto dietro la pungente ironia degli interpreti e protagonisti: Cody e May. Può un videogioco essere contemporaneamente innovativo e conservativo, citazionista e originale, profondo e scanzonato? Può, eccome. E giocando It Takes Two, ancora una volta, ne ho avuta la prova.
IT Takes Two: una (a)normale storia d’amore…
Partiamo dal principio, dal “c’era una volta”. Anche se di fiabesco, tematicamente parlando, l’incipit di It Takes Two ha ben poco. Cody e May, un tempo innamoratissimi, si scontrano con l’inflessibile e fredda routine della loro insoddisfacente vita quotidiana da troppo tempo. Da quando May ha cambiato lavoro, e sta quasi tutto il giorno via di casa, Cody non sembra più apprezzare i suoi sforzi come una volta. Così, i due decidono di comune accordo di divorziare, e lo comunicano alla loro bambina, Rose. La quale non prende bene la decisione dei genitori, e presa dallo sconforto si nasconde nella sua cameretta, a giocare con due bambole che ha costruito per lei suo padre Cody.
Rimasta sola, esprime commossa il desiderio di rivedere la sua famiglia unita ancora una volta. E, nel farlo, non si rende conto di dare il via a un incantesimo potentissimo: la magia del Dottor Hakim. Incontriamo poco dopo il mistico e misterioso personaggio, che per l’occasione ha preso le fattezze di un libro animato; guarda caso, un libro a tema “terapia di coppia”. Ma non sono i veri Cody e May a incontrare il petulante libro chiacchierone, bensì le loro versioni “bambola”; animate, apparentemente, dalle lacrime di Rose, e dal suo profondo desiderio e amore per i genitori. “Dovete collaborare, e aggiustare la vostra relazione!” ripete il libro di Hakim ai due increduli coniugi. Che, loro malgrado, iniziano un lungo pellegrinaggio alla riscoperta l’uno dell’altra.
Leggero come piuma, pesante come macigno
Ultimamente se ne vedono tanti, tutti diversi, eppure così dannatamente identici. Prodotti multimediali, che siano film, fumetti o videogiochi, dalla “lacrima facile”, emozionalmente più instabili di una relazione amorosa in crisi. Non è difficile, inizialmente, farsi sfuggire qualche lacrimuccia, un paio di “awwwn” sospiranti e una risata di gusto le prime volte che incappate in queste bombe emozionali. Ma poi, visto uno visti tutti: è una macchina industriale che produce facili sensazioni commerciali e poco stimolanti. Niente a che vedere con It Takes Two, il terzo lavoro di Josef Farez dopo lo sperimentale Brothers: A Tale of Two Sons, e il divertente, ma ancora limitato, A Way Out.
A partire da una scrittura solo apparentemente leggera; e in realtà ricca di ricca di non detti, sottotesti e studi psicologici degni di un tomo professionale sulle relazioni sentimentali. Fino a sprofondare nella comunicazione non verbale tra i protagonisti, animati (e doppiati, certo) alla perfezione pur nella loro semplicità compositiva. Chi sa dove guardare, insomma, fin da subito capirà che il lavoro di ricerca svolto dai developer si estende ben oltre il tentativo di emozionare pigramente il giocatore. Infatti, It Takes Two racconta una storia dolorosamente verosimile e reale, immergendoci in un lungo sogno vivido sempre più improbabile e tortuoso; tanto più lontano dalla realtà, quanto più intensi e dolorosi si fanno i temi trattati e le loro implicazioni sulla vita reale e sulla psicologia dei protagonisti.
Cody e May si rivelano così immediatamente personaggi ben più stratificati di quanto non sembri all’inizio, e la sospensione dell’incredulità necessaria loro per accettare la trasformazione diventa essa stessa un elemento narrativo; atto a giustificare alcuni loro pensieri, comportamenti ed emozioni. Mai, e dico mai, uno strumento necessario per tenere in piedi situazioni incoerenti: tutt’altro. Il viaggio che It Takes Two ci propone, invece, è insensatamente sensato, comprensibilmente incomprensibile, e realisticamente surreale. In costante bilico tra due opposti, la narrazione non smette mai di emozionare genuinamente. Perché non c’è emozione più vera di quella che non salta subito all’occhio.
Citazione fa rima con evoluzione
Non poteva essere altrimenti, ma fa piacere notare che la coerenza narrativa votata al sognante e all’improbabile si presta con puntuale precisione anche al comparto ludico. In breve, il gameplay di It Takes Two è un pot pourri di situazioni varie e a volte distantissime tra loro; con soluzioni che strizzano l’occhio ai più disparati generi videoludici; e a videogame noti e meno noti, ma sempre parte di un immaginario comune, e pertanto perfettamente riconoscibili a colpo d’occhio.
Ciò che colpisce maggiormente, è che su una base solidissima fatta di puzzle ambientali mai impossibili, ma sempre impegnativi e soddisfacenti da risolvere, It Takes Two monti di volta in volta un edificio ludico differente. Strato su strato, la base di cui sopra si contamina, cambia, si contorce e poi torna basilare, sorprendendoci con trovate che non hanno quasi mai la scintilla dell’unicità nel panorama videoludico. Ma che, giunte le une alle altre in un continuum privo di cuciture evidenti tra le parti, si traducono in un’esperienza che, ci metto la mano sul fuoco, avrà il sapore del “mai visto prima”.
Il flusso artistico e compositivo attraversa narrazione e gameplay organicamente, ma forando il continuum con intensità, e a tratti addirittura violenza, vi porterà attraverso sezioni ora di platform, ora action, ora Third Person Shooter; che d’un tratto diventano livelli alla guida di un mezzo volante, di una nave galleggiante su un mare di LEGO, sul binario di un trenino giocattolo in corsa nella cameretta di Rosy. E infine “uscirete” addirittura “a riveder le stelle”, poco prima di una Boss Fight al cardiopalmo, il culmine di un escalation sul filo dell’assurdo. Potreste trovarvi a scambiare colpi di picchiaduro con un roditore sull’ala di un biplano costruito con delle vecchie mutande stampate a cuoricini, per dire, oppure no, chissà. Me lo sarò inventato, o vi ho fatto un piccolo spoiler? A voi addentrarvi in It Takes Two, e scoprirlo.
It Takes Two: lo avevo detto che è un gioco multiplayer-only?
Ops, potrei fino ad oggi aver saltato (volutamente) un dettaglio fondamentale riguardo It Takes Two. E’ un gioco esclusivamente multiplayer, da affrontare, come A Way out, con un compagno o una compagna online o in locale, con lo schermo in split screen. Io, ad esempio, ho affrontato le magnifiche sfide del gioco con la mia compagna, divertendoci come raramente ci capitava di fare su un videogioco insieme da molto tempo. E’ strano, a ben pensarci, che mi colpisca, e ci colpisca, così tanto quando un videogame ci costringe a vivere l’esperienza in cooperazione con un altro giocatore. Nel mondo videoludico 3.0, praticamente ogni esperienza che proviamo è condivisa con qualcuno online, che sia un nemico o un alleato. E la pandemia in corso non ha fatto altro che acuire una tendenza naturale del videogioco ad unire le menti affini dietro la comune passione per i pixel colorati.
Quasi artisticamente, l’atto stesso dietro questa forzatura è accomunabile a Bansky che distrugge il suo bambino con il palloncino, a una banana appesa al muro con lo scotch che ostinatamente vogliamo definire “arte”. Al consegnarci esattamente quel che ci consegnano tutti gli altri giorno dopo giorno, release dopo release, improvvisamente non più “opzionale”, ma obbligatorio. Obbligatoriamente cooperativo e in split screen per di più; e con una discreta dose di complicità e coordinazione combinata richiesta fra i due player. Tagliando, come un solco su una tela, lo schermo in due, memore dei capolavori videoludici del passato.
It Takes Two vive di opposti che si incontrano, metaforicamente, ludicamente, tematicamente, tanto nella narrazione quanto nel gameplay. Il viaggio affrontato da Cody e May diventa un pretesto per viaggiare dentro di noi, e dentro al partner con cui condivideremo una fiaba moderna dal sapore distinto e agrodolce. Un gioco completo e longevo il giusto, che scorre dinamico e divertente dall’inizio alla fine. Vi sentirete coinvolti in modi che non immaginereste mai, riderete, piangerete, vi chiederete “cosa ho mangiato ieri sera per provocarmi queste allucinazioni?”. Ma soprattutto, ri-scoprirete una tipologia di videogioco autoriale e semi-indipendente (è pur sempre un EA originals, anche se sviluppato da Hazelight sotto la guida di Josef Fares) che non teme confronti con i tripla A. L’unico difetto che sono riuscito a concepire, sta proprio nella rigida imposizione del gameplay multiplayer cooperativo; che anche se non impone a tutti e due i giocatori di comprare una copia del gioco, resta una modalità che fa ancora storcere qualche naso di troppo. Ironicamente, una modalità nuovamente oscillante tra due opposti: la sperimentalità, e l’assuefazione del medium videogioco al “multiplayer a tutti i costi ovunque”. “It Takes Two”, ne servono, o ne bastano, due: letteralmente. Due secondi per lasciarsi, e allontanarsi a due (e più) passi di distanza l’uno dall’altro; finché non senti due cuori che battono all’unisono, per tornare a sognare insieme.