Esce domani, su Nintendo Switch, PlayStation 4 e PC (tramite Steam) The Great Ace Attorney Chronicles, piccolo miracolo della localizzazione e dell’adattamento: si tratta, difatti, della versione occidentale, in combo, di una miniserie composta da due titoli finora disponibili solo sul mercato asiatico: The Great Ace Attorney: Adventures e The Great Ace Attorney 2: Resolve.
Originariamente usciti su Nintendo 3DS e successivamente portati anche su mobile (iOS e Android) temevamo che non ne avremmo mai visto una versione localizzata quantomeno in inglese: si tratta infatti di giochi dal complesso sfondo linguistico, che avrebbe comportato un lavoro molto grande di localizzazione, forse troppo rispetto al potenziale pubblico. Tant’è vero che sono rimasti in un limbo per diversi anni: il primo è del 2015, il secondo del 2017. Ace Attorney è una saga con un fandom agguerrito ma non numerosissimo, e così come non è mai stato portato in occidente il secondo capitolo di Investigations temevamo che le avventure nippo-britanniche di Ryunosuke Naruhodo sarebbero rimaste nel regno delle fan translation. Invece, forte del rinnovato interesse per i giochi giapponesi dimostrato negli ultimi anni dal pubblico dei videogiocatori occidentali (che ha riscoperto saghe come Persona e Yakuza) Capcom ci ha voluto omaggiare di una collection di grande impatto e a cui si è dedicata con cura piuttosto certosina.
The Great Ace Attorney Chronicles, l’evoluzione nel prequel?
Ace Attorney è una saga oramai ventennale, un qualcosa di praticamente unico nel panorama videoludico: Shu Takumi non solo ha creato un genere a se stante, ma ha reso la sua creatura così distintiva da rendere difficile replicarne non solo il successo, ma anche semplicemente le meccaniche, tanto è vero che di giochi “simili” ad Ace Attorney se ne possono contare sulle dita di una mano. Di cosa si tratta? Di un singolare incrocio tra una visual novel e un gioco investigativo, in sostanza, che si divide tra scene del crimine, luoghi dell’investigazione e aule di tribunali. Nei panni di un improbabile avvocato difensore saremo chiamati a investigare, interrogare testimoni, cercare indizi, smascherare false testimonianze e, in sostanza, ribaltare processi dagli esiti che sembrano già decisi.
La saga è oramai composta di sei episodi principali, più due spin-off prettamente investigativi, un atipico crossover con il Professor Layton e due prequel, i qui analizzati componenti della compilation in uscita in double bill.
Un’altra epoca, un altro Naruhodo
Entrambi gli episodi di The Great Ace Attorney, difatti, si ambientano in epoca Meiji, circa cento anni prima gli eventi della saga principale, raccontando le disavventure forensi di un progenitore del noto Phoenix Wright / Ryuichi Naruhodo: Ryunosuke Naruhodo, per l’appunto. Un setting ambientato in un Giappone che si sta aprendo all’Occidente, con un Impero Britannico che volge paternalisticamente lo sguardo sul nuovo alleato orientale, fornisce davvero tantissimi spunti al suo autore Shu Takumi, che rinnova così non solo il parco personaggi ma anche le dinamiche sociali e forensi, che finiscono per avere un impatto non solo sulla narrativa, ma anche sullo svolgersi dei casi narrati, data la naturale arretratezza della scienza forense all’inizio del ‘900 rispetto a oggi.
E, mentre la saga originale è ambientata in un (allora) prossimo futuro in cui distopicamente il sistema legale nipponico viene portato alle estreme conseguenze e in aula non bisogna dimostrare la colpevolezza ma l’innocenza, Takumi si prende la briga di raccontare come sono state gettate le fondamenta del moderno sistema legale e i diversi punti di vista in merito dei più o meno illuminati giuristi d’inizio ‘900. Particolarmente interessante risulta il confronto tra le visioni orientali e occidentali e tutta una serie di conseguenze in merito, filtrate oltretutto attraverso un occhio nipponico al tutto. Insomma, sotto alla patina spesso weird delle sue storie, Takumi nasconde sempre riflessioni interessanti.
Un cauto rinnovamento: bentornati a casa!
Entrambi i giochi presenti nella collection sono in continuity con la saga e fra di loro e presentano la struttura tipica del franchise, ovvero una serie di casi che si susseguono e portano sempre avanti una trama tanto orizzontale quanto verticale, tramite avvenimenti personali ed elementi comuni in un contesto narrativo che, arrivati alla fine del gioco, si dimostra solitamente molto avvincente e abbastanza coeso. All’interno dei singoli casi si alternano fasi investigative sulle scene del crimine -alla ricerca di indizi, prove, oggetti e testimonianze chiave- e fasi in aula, in cui ci ritroveremo a interrogare testimoni per trovare la giusta leva per scagionare il nostro assistito. Che, nel primo caso… saremo noi stessi! Come da tradizione, il gioco si prende i suoi tempi (in questo titolo, praticamente, i primi due casi) per spiegare le meccaniche di gioco rompendo la quarta parete e facendo scoprire a poco a poco un gameplay basilarmente centrato sul trovare le contraddizioni insite nelle testimonianze e negli indizi e usarli a nostro favore al momento giusto.
Le effettive novità, rispetto ai precedenti giochi, sono piuttosto ridotte, andando piuttosto a mutuare alcuni elementi già visti ma leggermente modificati, come ad esempio la possibilità di seguire più testimoni durante i controinterrogatori e di interagire con la giuria, fondamentale più del giudice in certi casi. Il ricorso ad elementi sovrannaturali solitamente presente nella saga principale qui è molto, molto smorzato, mantenendosi coi piedi per terra nonostante molte suggestioni, un po’ come nei romanzi di Arthur Conan Doyle, da cui viene mutuata la figura di Sherlock Holmes.
Qui apriamo una parentesi: i giapponesi usano spesso negli anime e nei videogiochi personaggi di ispirazione occidentale, modificandone le caratteristiche. Lo Sherlock presente in questo gioco è, difatti, molto diverso dal genio problematico che conosciamo dai telefilm della BBC: per un complesso gioco di diritti, in occidente il personaggio viene chiamato Herlock Sholmes, e per una volta, un adattamento “non fedele” migliora l’originale, dato che lo Sherlock made in Capcom ne sbaglia ben più di quante ne azzecca, quindi che abbia un nome con un gioco di parole che ne fa la parodia rende meglio il senso, dato che (prendendo in prestito la pronuncia giapponese) più che Sherlocko… è “Farlocco”. Sottilezze linguistiche a parte, il personaggio è comunque divertente e porta avanti col protagonista un elemento peculiare delle investigazioni, i cosiddetti Joint Reasoning, che portano spesso a conclusioni utili per le indagini.
Diciamo dunque che Takumi ha deciso di non stravolgere il gameplay con nuove implementazioni che stranissero vecchi e nuovi giocatori, quanto con rivisitazioni e scelte di campo, prendendo il meglio di quanto gli altri titoli avessero da offrire, intro animate e gestione delle telecamere incluse.
Ace Attorney nella sua essenza, nel bene e nel male
La “giocabilità” del titolo è ancorata a stilemi piuttosto vecchiotti, e basilarmente si tratta di usare un minimo di arguzia nel collegare i punti: il “gioco” in sé non è divertente, lo sono le situazioni in cui sono calati i personaggi e i personaggi stessi, che avvincono il giocatore a incalzare sempre più i testimoni per scoprire cosa succederà in seguito. Bisogna sicuramente scendere a patti con la natura da visual novel del tutto, tanto è vero che, addirittura, c’è una vera e propria opzione di “autoplay” che vi consente di godere di entrambi i giochi come se fossero degli anime: tutte le scelte narrative e le svolte nei casi (che comunque prevedono sempre un’unica soluzione) saranno giocate dalla cpu al posto vostro, rendendovi semplici spettatori.
Quel che forse non funziona alla perfezione è la caratterizzazione dei personaggi in sé: ti ci affezioni comunque ma hanno poco di distintivo e originale. Per molti versi ti ci avvicini perché in qualche modo ti ricordano qualcosa di già noto e a cui vuoi bene (ovvero, i personaggi della serie “base”) ma poi, per certi versi, rimangono in un limbo da “già visto”. Insomma, non riescono a bucare davvero lo schermo come quelli dei primi tre giochi, come del resto successo anche con l’avvento di Apollo. E chiaramente, in un gioco narrativo, avere dei personaggi appassionanti è una necessità, in cui TGAAC riesce solo a metà.
Attenzione comunque, perché non vogliamo dire che i personaggi non funzionino, anzi: sono piacevoli e ben studiati, rientrano nella “comfort zone” del giocatore senza eccessi di novità ma con caratteristiche comunque interessanti; Susato Mikotoba, ad esempio, all’apparenza è molto semplice, quasi banale, eppure la sua forza sta proprio nell’essere una risorsa nonostante l’apparente banalità, una ragazza moderna, intelligente e indipendente, piena di risorse, nonostante incarni l’ideale di fanciulla nipponica classica.
Testimoniare l’importanza di un lascito
Spesso, non lo neghiamo, siamo un po’ severi con le software house che spremono come limoni certi franchise non impegnandosi, però, ad ascoltare effettivamente i desideri dei fan, realizzando a volte riproposizioni, remaster, collection svogliate. Decisamente, non è questo il caso: The Great Ace Attorney Chronicles è stato portato a compimento, nella sua versione occidentale, con cura, con perizia, diremmo quasi con amore. La storica responsabile della traduzione e adattamento della saga Janet Hsu, del resto, lavora su Ace Attorney da lustri e oramai sarà affezionata alla saga tanto quanto noi. E se l’adattamento piuttosto forzato dei primi titoli, col senno di poi, era ben pensato a livello fonetico e di narrazione, ma rivisto oggi mostra il fianco, scopriamo ora che un adattamento che tiene conto delle difficoltà filologiche è possibile. TGAAC dev’essere stato un vero inferno da tradurre e adattare, perché corre sempre sul filo del gioco linguistico, tra Giappone e Inghilterra, tra riferimenti incrociati e astrusi sillogismi, contesti storico-sociali ben definiti e anche piuttosto complessi. Complessi non solo nella sua essenza ma anche da rendere (e comprendere). Eppure, nonostante la presenza sullo schermo in contemporanea di Sherlock Holmes e del grande letterato nipponico Natsume Soseki, tutto scorre. Certo, a livello di semplicità del testo, non si tratta del gioco della saga più malleabile, ma a nostro avviso ne vale la pena.
Anche per onorare gli sforzi di chi ha voluto mostrarci l’importanza storica e narrativa di recuperare tutti gli elementi di una saga storica. Capcom non si è decisamente risparmiata, in merito, dato che non si è limitata a inserire gallery visive, musicali e multimediali, ma anche le cosiddette Escapades, piccole ma divententi appendici narrative tutte da scoprire.
Piattaforme: PlayStation 4, PC, Nintendo Switch
Sviluppatore: Capcom
Publisher: Capcom
The Great Ace Attorney Chronicles è un titolo decisamente peculiare: i fan della serie non hanno certo bisogno della nostra benedizione per accoglierlo, già sanno che si tratta di due giochi validissimi (per quanto non i migliori) all’interno della saga, oltretutto riportati qui al massimo del loro splendore; chi invece non conosce già la serie potrebbe caldamente prendere in considerazione l’acquisto, in quanto non necessitano di conoscenze pregresse e possono fungere da entry level… per quanto consigliamo forse prima l’acquisto della collection dei primi tre, storici titoli.
Siate consapevoli, chiaramente, che si tratta di giochi prevalentemente narrativi e dal taglio molto nipponico, in cui passerete decine di ore a scandagliare dichiarazioni (in lingua inglese) in cerca di falle logiche per poter proseguire, a volte anche in maniera stanca… ma spesso in maniera esaltante. La mano di Shu Takumi, bravo a mescolare dramma, weirdness ed epicità, si sente sempre, anche se oscilla pericolosamente tra colpi di genio e altre soluzioni invece non troppo riuscite.
Un plauso al team di adattamento e un ringraziamento a Capcom, ad ogni modo, per averci dimostrato di ascoltare le richieste dei fan e di non accontentarsi di presentarci un contentino: difficilmente poteva venire meglio di così la versione occidentale di questo dittico.