Essendo nata nel 2015, la saga videoludica di Life is Strange è innegabilmente giovane, tuttavia nei suoi pochi anni di vita ha già sfornato diversi titoli che hanno destato l’attenzione del pubblico. Partorito originariamente dagli sviluppatori francesi di Dontnod Entertainment, il brand ha dovuto nel tempo fare affidamento anche al team americano di Deck Nine Games, così da assicurarsi che le sue uscite frequenti non fossero intaccate da un processo di sviluppo intenso e frettoloso. Life Is Strange True Colors è però un’eccezione alla formula, quasi un giro di boa: Deck Nine Games questa volta non è giunto in supporto ai colleghi francesi – non più coinvolti nello sviluppo – piuttosto si è occupato del creare un’esperienza d’alto profilo impostando una lettura di matrice inedita.
Con la regia posta nelle mani di Zak Garriss e con il copione affidato a Felice Kuan, quest’ultima iterazione di Life Is Strange promette già di partenza di prendere le distanze dall’approccio finora esplorato, regalando al distributore Square Enix quella che è dichiaratamente pensata come un’avventura grafica che mira a creare un dialogo con una nuova generazione di gamer. Come spesso capita in queste situazioni è lecito chiedersi se il nuovo approccio lavori a vantaggio o a demerito dell’esperienza, se sacrifichi le aspettative dei fan storici in favore di un bacino di consumatori nuovo e giovane. Ebbene, confidiamo che la nostra recensione possa aiutarvi a chiarire qualche dubbio.
Life Is Strange True Colors: benvenuti all’età adulta
Andando a ritroso nella storia dei videogame possiamo trovare un’infinità di tentativi di rinnovamento che si sono andati a estinguere in catastrofici epiloghi, epiloghi che non sempre sono stati giustificati da prodotti di bassa qualità. Per ogni Bomberman: Act Zero c’è un Onimusha: Dawn of Dreams, ovvero un esemplare che pur dotato di innegabili qualità finisce con l’essere affossato a causa di scelte troppo audaci che alienano gli eserciti di antichi affezionati. Ebbene, partiamo immediatamente con il rassicurare sul fatto che Life Is Strange: True Colors, pur variando un po’ le tematiche tradizionali, non si discosti troppo dal seminato.
C’è una giovane problematica, Alex Chen, ci sono poteri paranormali, c’è un’indagine pregna di sfumature thriller, c’è un’esplorazione profonda dei rapporti sociali interni a una comunità allargata. I punti essenziali della serie, insomma, sono tutti rappresentati, piuttosto è la loro esposizione a indagare nuovi orizzonti. Immediatamente si percepiscono piccole variazione alla formula collaudata, con Alex che, per esempio, è consapevole sin da subito della sua abilità particolare – una sorta di empatia potenziata che è in grado di intrufolarsi nei sentimenti delle persone. Una differenza minuscola che però si riflette integralmente sul contenuto dell’opera stessa: contrariamente ai suoi predecessori, True Colors non è tanto incentrato sulla scoperta di sé, quanto sull’accettazione e il consolidamento della propria identità.
Alex ha passato dieci anni tra assistenti sociali e case famiglia, ha una storia genitoriale cupa, si è sempre sentita insufficiente e ripudiata. L’inizio del gioco coincide con l’inizio della sua età adulta, con la scoperta di luoghi nuovi e con la ricerca di un rinnovato senso di famiglia e di abitazione. Nonostante possa far affidamento su un paio di preziosissimi amici, la protagonista rimane nondimeno fondamentalmente autonoma, non è dotata di una “spalla” che la accompagni nelle sue avventure, anche perché le sue avventure tendono a essere profondamente introspettive. Esporre la trama del gioco, per quanto in forma di sinossi, rischia di rovinarne i contenuti e i colpi di scena – qualcosa abbiamo comunque accennato nella nostra anteprima -, tuttavia possiamo tranquillamente accennare al fatto che l’indagine vera e propria, la parte “pulp” della vicenda, non sia affatto posta al centro dell’attenzione, anzi è piuttosto un MacGuffin che viene perlopiù risolto a tre quarti del giocato, cosa che permette all’epilogo di focalizzarsi sui legami di Alex con il suo Io e con il mondo che la circonda.
50 sfumature di autoaccettazione
Non è difficile intuire che la cifra autoriale adottata da Garriss sia parzialmente diversa da quella preferita da Dontnod Entertainment. Pur non essendo esente da situazioni drammatiche, Life Is Strange: True Colors si fregia di un intreccio che garantisce atmosfere tutto sommato meno opprimenti di quelle viste in passato. Basti contare che un lasso non indifferente del giocato viene passato a imbastire e partecipare a una sessione di LARP, di gioco di ruolo dal vivo. Il fatto che l’attenzione degli sviluppatori si sia spostata dal commentario sociale all’approfondimento introspettivo potrebbe altresì scontentare coloro che hanno ammirato gli altri traguardi etnico-analitici dimostrati da Life Is Strange 2, tuttavia non deve sorprendere che, proprio come la protagonista del gioco, Deck Nine Games si sia sforzata massimamente per lanciarsi in un processo di autodeterminazione.
Le vicende di Alex si dipanano in un fittizio paesino del Colorado, stato americano che guarda caso ospita proprio gli uffici di Deck Nine. Garriss e Kuan hanno dunque descritto qualcosa di molto vicino alle loro esperienze, mettendo in campo uno spaccato di intimità che difficilmente potrebbe essere accostato ai concetti messi in campo dagli autori originali. Quello che ne è venuto fuori è un qualcosa di altamente accessibile che tuttavia è in grado di fuggire alla banalità, un ottimo punto di partenza per chi non ha mai sperimentato la saga, ancor più perché i rimandi ai capitoli passati sono limitati ad alcuni blandi riferimenti e al ritorno del personaggio di Stephanie Gingrich, musicista e game master già vista marginalmente in Life is Strange: Before the Storm.
Sebbene l’impostazione di base sia degna di riconoscimenti, è opportuno anche sottolineare che, essendosi parzialmente discostato dalla componente “thriller”, il team di sviluppatori sia incappato in una conclusione che non riesce a preservare l’energia accattivante che è invece è estremamente palpabile nelle fasi iniziali, con il risultato che intere sezioni sembrano rese artificiosamente lunghe. Il titolo non è esente neppure da qualche difetto tecnico: l’area centrale del gioco è soggetta a occasionali problemi di stuttering, ovvero in una gestione altalenante dei frame che si mostra particolarmente nei primissimi minuti di gioco, quando la cittadina viene presentata con una luce ovattata e accogliente. Raramente è inoltre possibile incappare anche in qualche gaffe nella gestione delle scene cinematografiche, con i modelli poligonali dei personaggi che vengono inquadrati quando mentre sono ancora dispiegati in A-pose, ovvero prima che siano pronti a entrare effettivamente nell’inquadratura.
Fortunatamente si tratta di sventure assolutamente minori e marginali, ben compensate da quei trionfi stilistici che lasciano un segno imperituro. Su tutto emerge la scelta delle tracce musicali e, più in generale, il sound design. La musica è sempre stata un fattore di rilievo all’interno della saga, ma qui adotta un ruolo estremamente denso e significativo: Alex esprime le sue emozioni scrivendo canzoni sulla sua agenda, quasi tutti i personaggi di supporto manifestano la propria personalità anche attraverso vinili e juke-box, per di più la stessa schermata di caricamento è decorata con un giradischi che solca le cavità di un disco. Il panorama sonoro è caldo e immersivo, le canzoni su licenza sono azzeccate e perfettamente in linea con i contesti che vogliono enfatizzare, le menti di Deck Nine devono essersi molto impegnate a ottimizzare il tutto e i risultati virtuosi sono assolutamente evidenti, soprattutto se siete in possesso di un impianto audio capace di reggerne la profondità.
Inessenziali, ma assolutamente graditi, sono anche tutti quegli elementi di gioco che nulla hanno a che fare con la trama, elementi che non di meno contribuiscono a creare un ambiente che sia vivo e brioso. Parliamo di cose come il poter riposare sul divano, fermarsi a riflettere guardando un tramonto, impazzire nel cercare di battere i record nei cabinati arcade, seguire le peripezie amorose dei personaggi non giocanti, navigare sui social e sfogliare il vivace diario di Alex. Il mondo di True Colors si presta spontaneamente a questo genere di fruizione ed è pertanto facile che queste deliziose attività entrino a far parte della routine di ogni giocatore in maniera assolutamente naturale.
Piattaforme: PS5, PS4, Xbox One, Xbox Series X|S, PC
Sviluppatore: Deck Nine Games
Publisher: Square Enix
La serie di Life Is Strange affronta regolarmente dei complessi spaccati sociali che spesso hanno a che vedere con adolescenti, Life Is Strange: True Colors non altera questo presupposto, tuttavia gli fornisce una lettura che da una parte è socialmente meno critica e dall’altra è narrativamente più adulta. Le risorse di Deck Nine hanno creato un gioco che complessivamente rinuncia ad alcune delle situazioni più estreme dei suoi predecessori per concentrarsi su una vicenda che sia più terra-terra, più condivisibile e immediata. Se non siete certi che la cosa possa fare per voi, immaginatevi come potrebbe essere un videogame nato dall’incrocio tra i passati Life Is Strange e il noto “walking simulator” Gone Home, otterrete un’immagine che è estremamente vicina a quella di True Colors.