Deathloop Speciale: Blackreef nella visione del suo Art Director, Sébastien Mitton

Deathloop State of Play

Di Deathloop ci siamo occupati fin dal primo annuncio con grandissimo piacere e interesse: del resto, come non accogliere con grandi aspettative il nuovo gioco di Arkane Lyon, a cui dobbiamo la serie di Dishonored e Prey? Ci siamo subito affezionati all’idea folle, quanto geniale, di voler rinnovare un genere già ampiamente esplorato dallo studio tramite uno stile grafico poco consueto e un gameplay basato su intelligenti e intriganti loop temporali. Ci abbiamo creduto così tanto da volerne fare la Cover story del numero 28 di Game Pro, il primo del nuovo corso digitale!
E, alla prova dei fatti, il nuovo gioco del team di Dinga Bakaba, pubblicato da Bethesda per PlayStation 5 e PC, non ci ha delusi.
A poco più di un mese dall’uscita del titolo negli store, abbiamo avuto l’opportunità e il piacere di fare una breve chiacchierata con Sébastien Mitton, Art Director e co-creatore presso Arkane Lyon, con cui collabora ormai da quasi 18 anni, dal 2004, lavorando praticamente a tutti i progetti dello studio da Dark Messiah of Might and Magic in poi.

Deathloop: farsi riconoscere, ma con un vestito tutto nuovo

Iniziamo la chiacchierata con un apprezzamento e una dichiarazione di stima, affermando che i titoli Arkane sono sempre molto raffinati da un punto di vista artistico, con quel tocco che fa riconoscere la “mano” dello Studio dando quel tocco distintivo che si fa subito riconoscere (e in quel tocco, naturalmente, c’è molto di Mitton). Al contempo, però, non si tratta di un segno distintivo che marca tutto allo stesso modo, finendo anche per riciclare bellamente gli asset solo perché particolarmente ispirati: ogni gioco ha la sua matrice e il suo mood. E il nostro ospite ringrazia e conferma che l’impegno profuso in ogni produzione è speciale, con la voglia di fare sempre meglio e sperimentare nuove soluzioni e fascinazioni. Le atmosfere sono importanti ma per quanto belle non devono essere reiterate, soprattutto fra franchise diversi. Possono avere elementi (soprattutto di gameplay) in comune, ma il mood dev’essere diverso. La voglia di rinnovamento parte da loro stessi: del resto, capiamo benissimo che a lavorare su un singolo progetto per diversi anni viene poi voglia di “cambiare aria” e quindi passare dall’ambientazione di un Dishonored a quella di Prey per poi passare a un Deathloop possa essere quasi una necessità personale e professionale per mantenere una certa freschezza operativa.

DeathloopDeathloop e… Quentin Tarantino

Passiamo poi a quel che ha subito colpito tutti, già durante la primissima presentazione del gioco, ancor prima che si capissero le premesse di gameplay e l’originale sistema di “loop temporale” alla sua base: lo stile grafico e l’atmosfera in genere, che è poi l’area di competenza specifica di Mitton. Lo sappiamo: la prima cosa che viene in mente, come giustamente confermato anche Mitton stesso, è la filmografia classica di James Bond, quella con Sean Connery protagonista. Deathloop è un peculiare melange di atmosfere riprese dalle spy story classiche degli anni ’60 e ’70, dai crime più classici, fino ad arrivare a un pizzico di film di genere exploitation. Tra le fonti meno comuni individuate e confermate ritroviamo la serie televisiva britannica The Avengers (no, nulla a che vedere coi supereroi Marvel: si tratta di una serie tv degli anni ’60 con protagonista Patrick Macnee), il singolare serial Il prigioniero e Shaft il detective. Immancabile, naturalmente, il riferimento a Quentin Tarantino e alla sua cifra stilistica, cucitasi addosso creando, come sappiamo, una sorta di costume da Arlecchino raccogliendo insegnamenti, scene madri e stile dal cinema di genere di quegli anni. Il postmodernismo di Pulp Fiction, sicuramente, lo ritroviamo anche in Deathloop, a più riprese: la lezione imparata da Tarantino destrutturando decine e decine di film è stata decisamente fatta propria da Mitton, andando ben oltre l’imitazione ma assorbendo uno stile narrativo forte e significativo.

Deathloop BethesdaUn viaggio alle Fær Øer… dai toni accesi

Un elemento molto particolare e che ci ha colpito molto, è la scelta della palette di colori utilizzati, caldi e saturi, tipici del periodo di riferimento dei sixties e seventies. Potrebbe sembrare una scelta quasi obbligata per chi conosce la moda e la fotografia di quei decenni, ma potrebbe risultare peculiare per i più giovani, che magari non sono avvezzi a questi cromatismi. Ma, soprattutto, ci stranisce questa scelta di colori in relazione al setting del gioco: son colori che si abbinano maggiormente ad ambientazioni calde, come la jungla o il deserto. Deathloop, invece, è ambientato su un’isola glaciale, Blackreef, ispirata alle Fær Øer, a cui sarebbe naturale restituire una palette dai colori freddi. Si tratta di uno straniamento voluto: del resto, se il giocatore è stranito tanto quanto il protagonista, in prima battuta, l’immedesimazione funziona meglio. Il giocatore è disorientato, soverchiato da una natura ostile e che non dà scampo, da cui non può fuggire (è un’isola!) e completamente solo.
E a questo si ricollega un altro elemento che abbiamo notato: la moltitudine di persone che popolano l’isola ma sono apparentemente senza personalità. Sono PNG, letteralmente pedine, “minion” dei Visionari, indossano tutti maschere che hanno la funzione tecnica di rendere più interessante un espediente per non creare dei png banalmente tutti “uguali” con dei design ricorrenti. Le maschere, ci viene detto, svolgono questa funzione di non annoiare il giocatore con character design troppo simili per i personaggi di sfondo ma, al contempo, dar loro una personalità proprio tramite l’espressività statica delle maschere.

Quando lo stile è parte della sostanza

Per concludere, c’è un tasto molto importante da toccare: il bilanciamento tra artisticità e gameplay. In Arkane la prima conta quanto la seconda, verrebbe da dire, visti i risultati. In tanti pensano solo al gameplay e, solo secondariamente, a una veste grafico-artistica convincente. Risulta raro che l’artisticità impatti sul gameplay. Mitton è riuscito nella grande impresa di rendere artistici anche elementi strutturali, come la foggia delle armi. LA domanda era piuttosto semplice: il design di gadget e armi è stato deciso prima graficamente e poi ci si è costruito sopra il gameplay o viceversa? La risposta è che si è prima pensato alla funzionalità delle armi stesse, a come dovessero funzionare. Poi sono stati comunque dolori, con tentativi su tentativi per dare il giusto aspetto all’armamentario in relazione a come dovevano funzionare ed essere visibili. Tantissimo lavoro su elementi che poi, in realtà, si vedono relativamente poco, essendo il gioco in prima persona e quindi riuscendo a notare, in game, pochi di questi dettagli così elaborati.

Ma, del resto, la cura del dettaglio è spesso quel che distingue i prodotti dozzinali dalle opere che spiccano. E di questi dettagli Deathloop è pieno. Vi invitiamo a scoprirli: non ve ne pentirete.

Deathloop è disponibile su PlayStation 5 (anche in versione Deluxe) e PC (sullo store di Bethesda o su Steam): trovate la nostra recensione a quest’indirizzo.

Toumarello è il nickname che si porta appresso ormai da anni, ma non chiedetegli di spiegarvelo: è un tipo logorroico e blablabla. Per vivere (in ogni senso) scrive e descrive, in particolare di roba multimediale, crossmediale, transmediale... insomma, gli interessa il contenuto ma spesso resta affascinato dall'utilizzo del contenitore. Ama Tetris e le narrazioni interattive.