Don’t Worry Darling Recensione: Forse sarebbe stato meglio preoccuparsene…

Un film dovrebbe essere giudicato per quello che racconta e non per cosa succede al di fuori dello schermo: verissimo, ma se non fosse per la schiera di gossip, fraintendimenti, perplessità e dilemmi che accompagnano da settimane (e mesi) questa uscita, forse pochi saprebbero dell’esistenza di Don’t Worry Darling. Quindi, per una volta, il film deve ringraziare tutto il superfluo che lo circonda, almeno per il lavoro fatto a livello comunicativo… visto quanto poco esso stesso ha da dire.

Don’t Worry Darling: a postcard from USA

Quello di Don’t Worry Darling è il classico mondo impeccabile da cartolina americana, un po’ retrò e borghese, assolutamente ordinato e apparentemente perfetto. Villette a schiera immerse in un contesto luminoso, vialetti puliti in cui sono parcheggiate colorate e tondeggianti automobili che, ogni mattina, vengono usate da mariti soddisfatti pronti ad andare a lavoro, subito dopo aver salutato le loro eleganti mogli, sorridenti, innamorate e con l’unico obiettivo di renderli felici. Se sentite un leggero disagio nell’immaginarvi questa situazione, va tutto bene, perché è qualcosa di voluto. Dal di fuori tutto deve essere bello, ordinato, strutturato, per nascondere una realtà più oscura e sinistra. E se a questo punto sentite un paio di cassetti nel retro della vostra mente che richiamano memorie lontane di opere già viste, direi che anche questo è normale. Benvenuti nella prima opera fantascientifica di Olivia Wilde. Ed è qui che ci troviamo a porci la prima delle tante domande: non sarebbe stato meglio creare qualcosa che si è in grado di gestire? Dopotutto la Wilde con Booksmart (in italiano divenuto un infelice La rivincita delle sfigate), scritto anch’esso con Katie Silberman, aveva dimostrato di poter dire qualcosa, di destreggiarsi bene con la commedia e i suoi meccanismi. Ma la costruzione di un mondo distopico convincente, dietro la cui facciata di nascondono una serie di misteri e distorsioni sociali, nato con l’obiettivo di ergersi a bandiera del femminismo moderno e a difesa dell’uso smodato e sbagliato della figura della donna da parte dell’uomo padrone, è palese che richieda delle conoscenze ed esperienze pregresse ben diverse. E la mancanza di queste si vede tutta, soprattutto nel susseguirsi costante e consapevole che il film fa del citazionismo, di quel suo continuo scavare nella cinematografia precedente per creare pezzi di un puzzle che non si incastrano mai, che rimangono sparpagliati lì, un po’ senza senso, su quel tavolo che è lo schermo cinematografico.

Un puzzle deludente

Raccontare quella che è la più grande delusione di questo film, ovvero il modo in cui le vicende si susseguono e raggiungono una loro conclusione fin troppo scontata, semplicistica e di nessun impatto, è impossibile senza fare nessun tipo di spoiler. Diciamo solo che, se siete delle persone a cui piace il cinema e che hanno un certo bagaglio di film visti alle spalle, riuscirete ben presto a prevedere ogni scelta dei personaggi di questa storia, sperando ogni volta di sbagliarvi. Tutto parte da Alice Chambers (Florence Pugh) e suo marito Jack (Harry Styles), trasferitisi nella comunità di Victory dove lui ha trovato lavoro in una azienda sperimentale. È stato il magnate, guru e venerato Frank (Chris Pine) a ideare l’azienda e il posto stesso, situato nel bel mezzo del deserto californiano, l’unico centro sicuro in cui tutti lavorano per la costruzione di un mondo migliore. Cosa c’è al di fuori di Victory? Vietato saperlo, soprattutto per le mogli, a cui è chiesto di rimanere entro i limiti sicuri del loro quartiere, a distrarsi con feste, shopping, chiacchiere e tenersi impegnate con i lavori di casa, la preparazione di se stesse e l’inseguimento di qualsiasi cosa possa compiacere il proprio uomo. Tutto è perfettamente ripetitivo, fino a quando una vicina, dopo essersi avventurata nella zona proibita della città, inizia ad avere delle crisi che mettono in dubbio la vera natura di Victory, insinuando che ci sia dietro qualcosa di corrotto e subdolo. Parole che, inevitabilmente, innescano qualcosa nella mente di Alice che vede pian piano sgretolarsi il velo patinato che sembra avvolgere la sua vita.

Quello che è davvero apprezzabile di Don’t Worry Darling è l’attenzione con cui è stato creato tutto il comparto estetico del film, che si ispira a una affascinante e nostalgica iconografia statunitense degli Anni ’50 e ’60, in cui tutto deve rispettare delle regole di simmetria e perfezione che ben vengono espresse dalla scenografia e fotografia del film. Si percepisce subito l’attenzione che è stata messa nella forma di quest’opera, credendo forse che questa sarebbe bastata a reggere il film. I dettagli su cui tanto si è stati attenti a livello di costruzione dell’immagine, sono proprio quelli che mancano alla scrittura dei personaggi per renderli qualcosa di più di uno stereotipo senza fini, con tanti presupposti e nessun approfondimento. Sembrano bozze, appunti di qualcosa che, studiato meglio, sarebbe potuto essere utile, interessante, funzionale. Persino le interpretazioni ne vengono fuori mancanti, troppo strillate, compiaciute, monocorde, apparentemente mancanti di una vera e propria direzione da parte della regista. Nel bel mezzo di questo caos senza senso (così tanto ripudiato dalla trama eppure così persistente), spicca solo la performance di Florence Pugh, che dimostra di essere in grado dare forza e spessore ad Alice semplicemente con la sua forza recitativa, l’unica vera in un mondo di marionette.

Ma bastano queste due cose a salvare Don’t Worry Darling? Onestamente diremmo proprio di no. Dopo una prima parte che pone delle basi interessanti (che sanno di già visto, ma non sarebbe un problema se approdassero a soluzioni migliori) ci si aspetta un proseguo che insegua il caos di cui tanto ha paura, che scombussoli le certezze per dare risposte alle mille domande della protagonista (e dello spettatore), che stravolga le certezze per condurre alla rivelazione, all’orrore, alla riaffermazione e all’affermazione di quella critica sociale che tanto la regista ha rincorso con ardore. E invece non succede niente di tutto questo: Olivia Wilde sceglie la via più facile, quella che speri sempre non sia la risposta a tutto, per concludere la sua corsa distruttiva all’interno di Victory, prendendo pezzi da tutto quello che l’ha ispirata e non preoccupandosi di renderli ispirazioni elaborate piuttosto che innesti forzati e sconnessi all’interno della narrazione. Forse ci si sarebbe dovuti preoccupare più di cosa si volesse raccontare e meno della forma estetica con cui farlo.

Voto: 5