Martin Scorsese, al netto della sua indiscutibile carriera, non deve dimostrare nulla a nessuno. Sembrerà una frase scontata da dire, ma probabilmente necessaria data la vastità di lamentele che hanno circondato Killers of the Flower Moon ancor prima della sua uscita. Il problema? Quelle quasi tre ore e mezza di durata che, per molti, appaiono come un ostacolo insormontabile per la visione di un film. Eppure il cinema, non solo inteso come spazio scenico, deve essere considerata come una scelta, una decisione cosciente di come utilizzare il proprio tempo e una struttura narrativa come quella di solito proposta dal regista non può essere confinata nella durata dei prodotti mordi e fuggi di cui, sempre di più, ci si nutre negli ultimi anni. È un film mastodontico, sotto diversi aspetti… e la grandezza richiede sempre tempo.
Un nuovo punto di vista
Killers of the Flower Moon è un true-crime thriller, basato sul besteseller di David Grann, che tratta gli omicidi degli Osage agli inizi del 1920. Cacciati dalla loro terra per essere spostati nei meno problematici territori dell’Oklahoma, gli Osage si sono presto ritrovati al centro delle attenzioni altrui, a causa delle riserve di olio presenti in questi territori. Improvvisamente ricchi, circondati da quelle stesse persone che li avevano esiliati e che, dopo la scoperta, si sono finti loro amici per approfittare della situazione. Vi immaginerete che questo li abbia messi in una posizione di potere e, invece, gli Osage hanno continuato a dover sopportare e gestire ingiustizie, discutibili scelte e atteggiamenti razzisti. Basti pensare che, anche solo per accedere alle loro stesse ricchezze, avevano bisogno dell’autorizzazione e la firma di un guardiano. Mentre il libro di Grann affida la narrazione di tutto ciò all’investigatore federale Tom White (Jesse Plemons), il lavoro di sceneggiatura di Scorsese e Eric Roth si focalizza su una particolare famiglia e sul suo destino prepotentemente macchiato di sangue. I Burkhart sono ricchi, molto ricchi e inclini a morire in circostanze misteriose, apparentemente naturali e senza conseguenze (anche perché, essendo Osage, chi vuoi che indaghi sulla situazione?). E tra loro c’è Mollie, interpretata da una straordinaria Lily Gladston, al momento single. Opportunità perfetta per Ernest (Leonardo DiCaprio) di recente arrivato su quelle terre dopo il suo servizio nell’esercito, come cuoco, durante la prima guerra mondiale. È suo zio, dopo avergli offerto alloggio e una possibilità di lavoro come autista, a indicargli la ragazza Osage, facendogli notale che sarebbe una buona prospettiva di matrimonio, evento che effettivamente avviene di lì a poco.
Il re delle colline
Non ci vuole molto per capire che, a prescindere da quello che pensino i vari personaggi, è William Hale (Robert De Niro), il famoso zio benestante di Ernest, a muovere i fili di questa vicenda. Manipolatore, subdolo e opportunista, è un impeccabile comunicatore di se stesso e della sua immagine di migliore amico e sostenitore degli Osage, sempre pronto ad aiutarli con il suo sostegno morale, sociale ed economico. Quello che trama nell’ombra è invece nascosto agli occhi di tutti quelli esterni al suo giro ristretto, ma non a quelli dello spettatore che Martin Scorsese decide di mettere fin dall’inizio a conoscenza dei fatti. L’influenza di Hale ha effetto su tutto, non solo i comportamenti e le scelte del nipote: i dottori locali, la compagnia di assicurazione, le forze dell’ordine, i delinquenti della zona, tutto può essere gestito in modo che segua i desideri di quello che tutti conoscono come il re delle colline. E allora dov’è il mistero portante della sceneggiatura? Se Killers of the Flower Moon racconta la storia dal punto di vista di Mollie Burkhart, è nei suoi occhi che va ricercato il senso morale della stessa, nei suoi sentimenti verso il marito, nel dolore verso gli avvenimenti che colpiscono la sua famiglia, nell’orgoglio dell’appartenere alla sua comunità. E così il film smette di essere un classico poliziotti contro cattivi, come si può pensare a una prima occhiata, per trasformarsi in una toccante e scrupolosa tragedia d’amore, di fiducia infranta e tradimenti. Il vero mistero diviene la moralità di Ernest, la percezione che Mollie ha di lui, i dubbi che la assalgono dopo ogni sua scelta, gli interrogativi su dei comportamenti che lasciano una macchia indelebile sulla sua anima, più di una macchia di sangue sul pavimento.
La storia che tutti hanno dimenticato
Non importa quanto brutali siano le cose che succedono, le persone dimenticano. È il pensiero che protegge William Hale dai suoi atteggiamenti, la certezza che, se riuscirà a perseguire il suo fine ultimo, sarà solo questo a importare, a rimanere impresso nella storia. E così il tradimento di Ernest nei confronti di sua moglie, disegnato e architettato in ogni sfaccettatura da suo zio, diventa una metafora dei crimini commessi verso i nativi americani, del genocidio che ha permesso la prosperità dell’uomo moderno.
Raccontare ogni dettaglio, sfumatura, interpretazione e angolazione di Killers of the Flower Moon probabilmente richiederebbe un tempo pari a quello che è stato necessario al regista per mettere in piedi questa storia ricca, articolata e potente. Quello costruito da Martin Scorsese è un horror esistenziale sulla nascita dell’America, con alla base quello di cui tutti i film western hanno sempre parlato, il brutale impossessarsi di una terra, di risorse e potere. Ciò che lo rende diverso però da tutti gli altri sono, da un lato, gli interminabili dettagli di musica, costume e scenografia di cui è dissipato, e dall’altro la maestria delle interpretazioni. I personaggi riescono a mostrarsi nella totalità delle loro sfaccettature, spesso posizionate agli opposti dello spettro morale. Orribili eppure tremendamente umani, terrificanti ma allo stesso tempo ironici, veniali così come dannatamente profondi. E se Robert De Niro e Leonardo DiCaprio non stupiscono con la loro capacità perfetta di interagire e oltrepassare i limiti dello schermo per raccontare i propri personaggi, è la Mollie di Lily Gladstone a focalizzare l’attenzione di tutti: silenziosa, osservatrice, riservata, ma mai stoica o penosa, pur nella sua lunga sofferenza. Quindi sì, è un’opera cinematografica che pretende attenzione dello spettatore, perché piena dettagli e di personaggi secondari che hanno bisogno di raccontare la loro storia, anche solo per rendere l’esperienza più ricca e immersiva, in cui, quelli che potrebbero essere visti erroneamente come tempi morti, sono appositamente posizionati all’interno della narrazione per far depositare il malessere nello stomaco del pubblico, accompagnandolo e rendendolo pronto per lo step successivo.