Catturati da una spietata banda di criminali che sta terrorizzando Clerville, Diabolik e Ginko si trovano reclusi in una cella, senza possibilità di fuga e certi di andare incontro alla morte. Durante la prigionia, oramai quasi rassegnati ad una fine inevitabile, i due si confrontano ed il Re del Terrore rivela all’ispettore il suo misterioso passato. Intanto, Eva Kant e Altea, la duchessa di Vallenberg, alla disperata ricerca dei loro compagni, si alleano ordendo un piano per salvarli dal comune nemico. Diabolik chi sei? L’ultimo capitolo della trilogia sul Re Terrore, diretta dai Manetti Bros., ci narra le origini del famoso ladro mascherato ed il suo rapporto con l’ispettore Ginko, suo acerrimo nemico. Presentato in anteprima al Festival del Cinema di Roma, nella sezione “Grand Public”, è approdato nelle sale il 30 novembre. Costituisce il terzo ed ultimo film della saga iniziata con Diabolik (2021) e proseguita con Diabolik – Ginko all’attacco! (2022). La pellicola è l’adattamento cinematografico dell’albo n. 107 di Diabolik, del 1968, uno dei più iconici del il noto fumetto creato dalle sorelle Angela e Luciana Giussani ed edito Astorina.
Diabolik chi sei? 124 lunghissimi minuti
Il film è la degna conclusione della trilogia,(im)perfettamente coerente alle precedenti pellicole. L’operazione dei Manetti bros., infatti, è da considerarsi parzialmente fallimentare rispetto al progetto originario – portare Diabolik sullo grande schermo – soprattutto considerando le potenzialità dello stile poliedrico dei fratelli registi che faceva aspirare ad un adattamento più avvincente e roboante. Nonostante la lapalissiana e maniacale dedizione degli autori nella realizzazione del progetto, questo purtroppo, non rende giustizia al Re del Terrore. Il soggetto è stato scritto da Antonio e Marco Manetti insieme a Mario Giuseppe Gomboli, attuale autore e curatore del longevo Diabolik, nonché socio e direttore generale della già succitata casa editrice. La sceneggiatura come nelle precedenti pellicole, molto fedele al fumetto, caratteristica per sua natura lodevole, ma che allo stesso tempo diviene un’arma a doppio taglio. Lo stile narrativo infatti rimane quello dell’impianto dell’opera cartacea datata 1968, obsoleto nei suoi ritmi eccessivamente lenti, nella sua maniera didascalica e compassata che mal si adatta al medium cinematografico. Dopo un inizio abbastanza dinamico, che richiama il vecchio giallo all’italiana, le vicende procedono flemmatiche e pilotate, prive di colpi di scena, i momenti di tensione tendono a dissolversi senza mai concretizzarsi in modo efficace, privi di pathos. I dialoghi sono verbosi, a tratti iperbolici e poco credibili, privi di spontaneità e di ironia. Di contro sono troppo ricchi di spiegazioni prolisse ed ampollose che suscitano più noia che interesse. La regia manieristica è sovente eccessiva, perché mal si coniuga con la bidimensionalità del fumetto e del testo, i suoi virtuosismi, così malriposti, divengono stranianti e falsi. Il risultato finale è un intreccio senza dubbio articolato, ma inconsistente ed artificioso, che lascia un vuoto identitario del personaggio di Diabolik.
Istrionismo e parodia
Una teatralità traboccante che ritroviamo anche nella recitazione, sempre tendenzialmente molto controllata e poco genuina. Fanno eccezione, però, le ottime interpretazioni di Valerio Mastandrea e Miriam Leone, fin dal primo film sempre in parte e capaci di dar vita ai corrispettivi personaggi del fumetto. Mastandrea ben riesce a delineare la complessità umana e la malinconia di Ginko, così come la Leone incarna egregiamente la sensualità raffinata e la mente astuta di Eva Kant. Encomiabile anche la performance di Giacomo Gianniotti, nei panni del protagonista, freddo e misterioso in modo equilibrato, differentemente da Luca Marinelli (che ha interpretato Diabolik nella prima pellicola della trilogia), il quale risultava eccessivamente gelido, impassibile, al punto da apparire più come un laconico e finto automa che l’accattivante Re del Terrore. In Diabolik chi sei?, tuttavia, la nota dolente sul piano interpretativo, però, è Monica Bellucci, nei panni di Altea. Indiscutibilmente bellissima e con il giusto physique du role, manca totalmente di espressività, apparendo rigida ed artefatta. Caratteristiche esaltate, negativamente, da un surreale accento (studiato insieme ai fratelli Manetti, stando le sue dichiarazioni) che sembra più un difetto di pronuncia, tanto da risultare spesso comica e caricaturale, anche in frangenti drammatici. Una pecca notevole, considerando che il suo ruolo è rilevante, capace di compromettere in molte sequenze la credibilità dell’opera.
Lo stile non basta
La fedeltà al fumetto ed il manierismo visivo, sono ricercate anche per quanto concerne l’estetica della pellicola. La fotografia in stile retrò, che richiama gli anni tra i‘60 ed i ‘70, con un tocco a tratti più eccentrico, dona al film una suggestiva aura filtro vintage che ben si coniuga con l’ambientazione della storia. Altrettanto accurati ed in linea scenografie, costumi e trucco, nel complesso altro elemento di pregio del film, che, tuttavia, difettano in alcuni dettagli. Certi componenti del comparto risultano palesemente fasulli, come le lenti a contatto azzurre indossate da Monica Bellucci, di cui l’attrice sia chiaro non ha colpa, o la foggia un po’ posticcia degli ingressi occulti del covo di Diabolik. Apparenti minuzie che conferiscono un effetto finto, tipo giocattolo, aggravando quell’artificiosità che pervade intrinsecamente la pellicola. Interessante la colonna sonora, opera sempre di Pivio ed Aldo De Scalzi, ai quali si aggiunge il vivace contributo dei Calibro 35, rock band strumentale italiane e di Alan Sorrenti.
Diabolik chi sei? conclude un trittico di film fondamentalmente disgiunti, privi della necessaria connessione tematica che caratterizza il concetto di trilogia. Le relazioni tra le singole pellicole si limita all’ordine cronologico delle vicende ed a rimandi tra esse marginali e non interdipendenti, più simili ad un easter egg che ad un effettivo collegamento relazionale. Questa peculiarità, se da un lato può essere un vantaggio, perché permette di vedere i tre film singolarmente, senza precluderne la comprensione, dall’altro svincola le singole opere l’una dall’altra, amplificando la fisiologica sensazione di irrisolutezza che permea internamente il progetto. Quest’ultimo film, pur risultando nel complesso meglio strutturato ed apprezzabile delle due precedenti pellicole costituenti la trilogia, rasenta, mancandola, la sufficienza. La fedeltà integerrima al fumetto e la dedizione, a tratti maniacale e virtuosa, dei Manetti bros. non possono sanare le lacune che affliggono il film. Una sceneggiatura torpida dai dialoghi pletorici, la platealità preponderante e le piccole imperfezioni estetiche distruggono, consumandola, la credibilità del prodotto. L’effetto finale è di assistere ad un qualcosa di artificioso e grottesco, che invece di trasporre sul grande schermo il mito di Diabolik, ne fanno una patinata ed inconcludente caricatura.