1984: la videomania appena iniziava, e già c’era un gioco ispirato alla videomania stessa.
Che sballo, le epoche pioneristiche. Così piene di roba da fare, vedere, giocare! Quando un mezzo di comunicazione è ancora immaturo, è evidente che si va un po’ a tentoni, cercando di capire come sfruttarlo per ottenere un prodotto appettibile al pubblico. Ne nascono porcate immonde, ma anche piccoli capolavori che hanno dalla loro la forza dirompente dell’ingenuità, quell’ingenuità che, azzeccandoci, viene salutata dai fruitori come puro genio.
Il gioco di cui parliamo in questa puntata di π-retro cade in questa categoria. Naif finché volete, ma quando lo caricai per la prima volta rimasi di stucco. Intanto perché pensavo fosse italiano, visto che mi veniva presentato col titolo di “Sala Giochi”, e considerato che l’avevo trovato su quella cassettina pirata acquistata in edicola e potentemente lodata nel precedente episodio [in un omaggio quasi feticistico, le immagini a corredo di quest’articolo provengono dalla versione italiana in questione].
Ma Lazy Jones, questo il titolo originale, era un titolo inglesissimo, di quel periodo in cui i giochi se li programmavano dei teenager brufolosi tutti da soli: concept, livelli, grafica, musica. Poi li vendevano a qualche publisher e diventavano milionari da un giorno all’altro. Durò poco, non funzionò per tutti, ma hey, era un ottimo modo per convincere i genitori a comprarci un home computer. “Posso diventare ricco, papà!”. In realtà, la maggior parte dei giocatori voleva un home computer soltanto per spararsi tonnellate di giochi, ovviamente.
Il colpo di genio di David Whittaker fu quello di programmare un gioco che, in modo alquanto pittoresco, raffigurava la bulimia videoludica di noi ragazzini dell’epoca. Lazy Jones è infatti un tizio che non pare aver niente di meglio da fare che girare per una specie di sala giochi di lusso, composta di diciotto stanze, la maggior parte delle quali contiene un Commodore 64. Jones entra, si piazza davanti al megaschermo e si spara uno dei tanti giochi disponibili: dei rapidi cloni dei successi di fine anni Settanta; inizio anni Ottanta. Rapidi perché non durano più di un minuto; scaduto il tempo, il nostro si trascina pigramente fuori dalla stanza, salta i demenziali nemici che affollano i corridoi e si barrica dietro un’altra porta, un altro gioco.
Perché merita ricordare Lazy Jones oggi?
Per varie ragioni. La più importante: perché si tratta di fatto di uno dei primi esempi di microgioco alla Wario Ware: non una serie di eventi a tema alla Decathlon/ Hyper Olympics, non una collection di minigiochi alla Party Mix (Starpath, 1983, per Atari 2600 con estensione Supercharger). No: i microgiochi di Lazy Jones sono tali perché organici alla struttura complessiva dell’opera generale, e soprattutto alla sua ambientazione: non sono una scusa per diversificare un’azione stantia, ma sono la colonna portante della dinamica dell’azione. Sono in una sala giochi: che diavolo dovrei fare, se non giocare dei giochi? La logica è davvero la stessa che si ritrova, vent’anni dopo, in Wario Ware: se Wario ci costringe a spupparci quelle secchiate di microgiochi, è perché nella finzione narrativa egli si è messo in testa di diventare programmatore di videogame, e ci propone le paranoiche invenzioni sue e dei suoi sgangherati compari.
Lazy Jones è insomma il primo meta-gioco, ovvero un gioco che rappresenta l’atto di giocare. Ciò è enfatizzato dal fatto che noi vediamo il nostro avatar che smanetta col joystick del 64 e guarda uno schermo, inquadrato a sua volta dal nostro schermo. In termini cinematografici si parla di “mise en abyme”, come quando in un film vediamo dei tizi che guardano un film. Quando un mezzo di comunicazione comincia a permettersi questo tipo di sofisticate scelte stilistiche, vuol dire che il suo linguaggio comincia a smaliziarsi: pionieri, ma sgamati. C’è un’altra squisita ragione per amare Lazy Jones: la musica. Non a caso, Whittaker è anche uno dei migliori musicisti dell’epoca 64/Amiga (Shadow of the Beast – detto tutto), e per questo titolo (il primo, oltretutto, in cui si cimentava anche con le note oltre che con la programmazione) ideò un algoritmo di mix costante dei temi musicali dei microgiochi, dei corridoi e di ogni anfratto del gioco: la musica non si ferma mai, e ogni nuovo tema si attacca al precedente in piena progressione armonica e melodica. Tra i temi, spuntano sapide citazioni di “99 Red Balloons” di Nena, di “Fade to Gray” dei Visage e del vecchio standard swing della Tin Pan Alley, “Lazybones”, cui Whittaker si ispirò anche per il titolo del gioco. Ma furono poi altri a ispirarsi a lui come il gruppo techno Zombie Nation, che per l’hit “KernKraft 400” gli “rippò” una delle musichine dei microgiochi (ricompensandolo poi monetariamente per il plagio).
E non dimentichiamo che Lazy Jones contiene un elegante siparietto politically scorrect che incita all’uso di alcolici, una stanza con una poltrona dove dormire e sognare, forse, uno sgabuzzino e un gabinetto. Forse, tutti, per la prima volta rappresentati in un gioco proprio in questa occasione. Che sballo, le epoche pioneristiche. Così piene di roba da fare, vedere, giocare!