La prima stagione di Stranger Things, pur con i suoi difetti (e ne aveva!) è stata un esperimento ben riuscito, una perla rara in grado di elevarsi oltre la generale mediocrità che da anni infesta il piccolo schermo, risplendendo di luce propria. La serie ideata dai fratelli Duffer, giunta quest’anno al suo primo “esame di maturità”, doveva perlopiù puntare a confermarsi senza strafare e senza stravolgere una formula che già andava a mille all’ora lo scorso anno. Squadra che vince non si cambia, e i gemelli cineasti statunitensi, insieme al produttore Shawn Levy, hanno intelligentemente deciso di ripartire lì dove si erano interrotti, rimettendo insieme un cast alchemicamente perfetto e introducendo alcune novità incastrate alla perfezione nel quadro generale. Proprio come accadde dodici mesi fa, anche Stranger Things 2 fa qualcosa che ha quasi del miracoloso in un’epoca dove quasi tutte le produzioni si piegano al volere del Dio Denaro: se ne infischia di qualsiasi convenzione o di dover piacere per forza a tutti, marciando dritta per la sua strada. Nelle prossime righe proveremo a seguirla anche noi, sempre che non ci scappi via fra le dita, come una figura evanescente nel Vuoto.
BENVENUTI A HAWKINS
Prima di parlare di cosa ci è piaciuto e cosa meno, proviamo a rimettere insieme i pezzi della storia: la prima stagione si sviluppava come un lungo film più che come una miniserie ad episodi, e aveva una trama la cui autoconclusività era soltanto apparente: nonostante i pericoli sembrassero debellati, la scena finale lasciava aperti molti interrogativi e possibilità. Un anno dopo quegli eventi, la comunità di Hawkins è ancora impegnata a ritrovare un po’ di normalità, e la settimana di Halloween – collocazione temporale perfetta oltre che periodo di lancio nella realtà – sembra il momento giusto per lasciarsi tutto alle spalle. Non è così, ovviamente: fra i protagonisti, Will si trova ancora connesso al Sottosopra (Upside Down nell’originale inglese) in modi che nel corso della serie assumono pieghe inquietanti e inaspettate, mentre Nancy è attanagliata dai sensi di colpa per la morte dell’amica Barb, evento che l’ha cambiata profondamente, aiutandola ad acquisire maggior consapevolezza di sé e a scrollarsi di dosso l’immagine di adolescente frivola e civettuola.
Intanto l’iperprotettiva Joyce, madre di Will e del solitario Jonathan, trova conforto nel simpatico e imbranato Bob Newby (avete fatto caso al cognome?), l’ex compagno di scuola interpretato da un magistrale Sean Astin, che non è l’unica new entry. Anche Brett Gelman è impeccabile nei panni dell’eccentrico cospirazionista Murray Bauman, mentre Paul Reiser impersona il dottor Owens, figura che in qualche modo sostituisce quella di Matthew Modine, comunque presente come guest star (e non vi diciamo altro). Sorvolando su altre aggiunte secondarie ma a forte rischio spoiler per la loro ingombrante presenza sul finale di stagione, l’ultima e più importante riguarda proprio il quartetto protagonista, che, persa Undici non si sa per quanto, si arricchisce di un nuovo membro al femminile. Nonostante le novità e il clima festaiolo, però, i problemi in quel di Hawkins sono appena iniziati e tutti i personaggi dovranno fare fronte comune, al contempo appianando ogni possibile divergenza, per debellare una nuova, pericolosa entità che minaccia da vicino la placida cittadina.
SHOULD I STAY OR SHOULD I GO
Nel mondo di Stranger Things tutti i tasselli, vecchi e nuovi, hanno una loro coerenza. Anche nella seconda stagione nulla sembra lasciato al caso, con trame e sottotrame che si dipanano agilmente e si riallacciano in un finale che rimette tutto al suo posto: tranquilli, dunque, perché lo spirito della serie è immacolato e intatto fino al midollo, con un’ossatura che sembra uscita direttamente da un vecchio film. Non è soltanto la storia a fare la differenza, ma anche il modo in cui questa viene raccontata: la leggerezza nell’affrontare certi temi è un tratto stilistico (e non solo) tipicamente anni ’80, che gli amanti di film come Ritorno al Futuro, per citarne solo uno, riconosceranno dalla prima scena. Questo spirito di fondo permette di non percepire l’azione come eccessivamente cruda o tragica e se forse rende alcuni eventi troppo prevedibili, perlomeno aiuta da subito ad inquadrare meglio ogni singola sequenza, determinando fra l’altro uno stuzzicante contrasto con l’orrore di stampo lovecraftiano che fa da sfondo alla serie, un nemico che si combatte con l’intelligenza e la psicologia più che con la forza bruta.
Le note positive sono tantissime, a cominciare dai personaggi principali: i quattro membri dell’AV Club sono più che mai i protagonisti della storia e riescono a catturare l’attenzione in ogni scena in cui sono presenti. Merito sì di una scrittura che gravita quasi interamente attorno a loro, ma anche di comprimari niente affatto banali, su tutti la più grande novità in grado di sconvolgere il gruppo: Max, la ragazza-maschiaccio appena trasferitasi in città con il rude e autoritario fratellastro Billy, il quale entra da subito in competizione con Steve. Quest’ultimo, a sua volta, stringe un’improbabile alleanza con Dustin, fatta di confidenze personali e consigli reciproci sugli approcci alle ragazze. Il bello è che anche questa strampalata amicizia riesce a funzionare se inserita in un contesto che non si prende troppo sul serio, con situazioni che spesso sono volutamente la caricatura di loro stesse e generano un inaspettato umorismo, presente in maggior misura rispetto alla prima stagione e in grado di strappare più di un sorriso.
Più o meno tutti i personaggi subiscono un’evoluzione, in parte anche grazie all’introduzione delle nuove leve: ad esempio è per via di Bauman che Jonathan e Nancy imparano a “conoscersi” meglio, mentre Undici, interpretata da una bravissima Millie Bobby Brown, intraprende un lungo percorso per comprendere quale sia il suo scopo finale: a tal proposito è emblematico il settimo episodio, completamente a sé stante e separato dagli altri, che soltanto nel finale scopre tutte le sue carte e svela allo spettatore il senso di una simile digressione. Sofferente, ma per cause diverse, è anche il personaggio di Will, interpretato da un Noah Schnapp rivelatosi una piacevolissima sorpresa: dopo una prima stagione passata “dietro le quinte” per motivi narrativi, non ci aspettavamo che tornasse in così grande spolvero. Ci sono piaciuti, pur lasciandoci forse meno sorpresi, anche Winona Ryder e David Harbour, i due protagonisti “adulti” della serie: il secondo, in particolare, è apparso nei panni di un Jim Hopper più sfaccettato e tormentato.
Infine, anche se dirlo sembra quasi un eufemismo, abbiamo adorato l’estremo citazionismo che la serie dei fratelli Duffer si porta dietro dai suoi esordi. Anzi, forse è persino sbagliato definirlo tale: Stranger Things non sembra un prodotto nato oggi che omaggia gli anni ’80, ma al contrario pare proprio una serie TV uscita direttamente da quell’epoca. C’è di tutto, dalla musica, ai videogiochi, ai libri, ai fumetti, per finire con i giochi da tavolo (è inutile spiegare quanto Dungeons & Dragons sia importante per la serie), e potremmo continuare all’infinito. Ogni singola inquadratura degli interni (e spessissimo anche degli esterni) sembra progettata per spiegarvi quanto fosse meraviglioso il periodo in cui Ghostbusters usciva al cinema, Dragon’s Lair era fra i videogiochi più amati in sala giochi e alla radio si ascoltavano stabilmente i Police, Cyndi Lauper e Pat Benatar. Un periodo effettivamente bellissimo, il cui spirito è stato catturato con assoluta maestria dalla produzione, in un rapporto quasi simbiotico tra la realtà e la finzione scenica. Se è vero che gli anni ’80 hanno dato tutto a Stranger Things, quest’ultima è qui per ricordarci, a modo suo, quegli anni in cui i mostri sotto il letto (e fuori dalla porta), proprio come Babbo Natale, esistevano ancora.