Nel 1986 tutto è iniziato su un F-14 ed è a lui che si ritorna: non si dice in fondo che la vita sia un cerchio? Lo è anche la cinematografia, non lo abbiamo di certo scoperto oggi con l’avvicinarsi dell’uscita di Top Gun: Maverick, ma il sequel di uno di quelli che è ormai considerato un classico dalla visione obbligatoria ne è un esempio perfettamente calzante. E di qui ovviamente possono partire due tendenze di pensiero: la prima stanca e insofferente a questo continuo uso del passato per riportare gente estremamente nostalgica al cinema; la seconda, pienamente inserita nel target di destinazione del prodotto, entusiasta e combattiva, pronta a tutto pur di rivivere quei mai dimenticati momenti andati. E ci dispiace per le aspirazioni distruttive di chi si esalta sempre molto nel cercare, in un progetto di questo tipo, difetti e incongruenze, perché Top Gun: Maverick non darà loro modo di sfogarsi per bene.
Ritorno al passato
Sarebbe facile dare per scontato che, per andare al cinema a vedere questo film, si debba avere memoria del celebre film di Tony Scott, delle avventure dei suoi personaggi e delle conseguenze che hanno prodotto, e, ovviamente, è anche abbastanza consigliabile come cosa. Dopotutto siamo qui per parlare con i fan della prima ora, no? Certamente, ma non solo: Joseph Kosinski (regista tra le altre cose di Tron: Legacy e Oblivion), costruisce una narrazione semplice e lineare, in grado di dare allo spettatore tutti gli elementi necessari per rimettersi mentalmente in carreggiata e poter mettere a fuoco i collegamenti fondamentali con l’originale Top Gun. Le informazioni base, quelle senza le quali non si riuscirebbe a costruire lo spessore emotivo della storia, vengono fornite a tutti, anche a quella fetta di pubblico che si avvicina per la prima volta alle gesta dell’ufficiale Pete Mitchell, attratta dalla maestosità del titolo e del suo protagonista. Certo, non è per loro che sono state ricalcate luci e inquadrature, basi musicali e atmosfere, costumi e situazioni di quanto visto più di 30 anni fa, ma questo non le rende meno potenti e sapientemente inserite. Uno dei pregi del lavoro fatto sul ritorno sui grandi schermi di Top Gun è di calibrazione tra le influenze del passato e le richieste del presente, che ben si bilanciano all’interno dell’intera durata del film. C’è tanto delle sue origini, neanche troppo nascosto nei diversi momenti del film, ma c’è anche spazio per tutto quello che si richiede oggi a un film d’azione, tecnicamente evoluto e appariscente. Top Gun: Maverick ha studiato le sue origini, facendo sue tutte le parti migliori, comprendendone i limiti (e i costrutti sociali e di pensiero ormai ovviamente superati) e maturando in un film che non inciampa mai nei tranelli classici che insidiano ogni sequel.
Lasciar andare
Tutto quello detto finora sul film si sposa perfettamente con il personaggio interpretato da Tom Cruise: Maverick è una leggenda dell’aeronautica, fortemente ancorata al passato. Negli anni ha fatto di tutto per non avanzare di carriera e continuare a essere un pilota, sacrificando largamente la propria vita e gli affetti. È un uomo irrisolto, legato al passato e ancorato ai traumi che lo definiscono, primo fra tutti la perdita di Goose. Ma per migliorare bisogna andare avanti, essere disposti a evolversi ed è proprio questa l’occasione che gli viene offerta, fortemente di malumore e caldeggiata da un iconico Iceman (Val Kilmer), quando gli viene chiesto di addestrare i migliori piloti dell’accademia per una missione impossibile (si, non c’era altro modo di definirla). Attraverso i momenti di studio di fattibilità dell’operazione, ricchi di simulazioni computerizzate e addestramenti ad alta (e bassa) quota, la parte scenografica e adrenalinica del film è assicurata e regala forti emozioni. E quella emotiva? Uno dei piloti del gruppo scelto è il tenente Bradley Rooster Bradshaw (Miles Teller), proprio il figlio di Goose, verso il quale Mav ha sviluppato un enorme senso di paternità, cercando di proteggerlo, nel bene e nel male, per tutto il corso della sua vita. E anche qui, pur focalizzandosi sul protagonista, torna visibile questo costante oscillare tra passato e presente che caratterizza tutto il film e che, forse, è anche metafora della carriera di Tom Cruise stesso. Piloti, strutture governative, studi cinematografici, attori, spettatori: tutti sono chiamati a fare i conti con il passato, valutarne gli aspetti positivi e negativi, affrontare le proprie paure e proiettarsi verso una nuova e più risoluta versione di se stessi.
Top Gun: Maverick è sicuramente una enorme celebrazione di uno stile cinematografico che, se vogliamo, ha contribuito alla nascita dei moderni blockbuster action. Il regista fa delle precise scelte che ricordano pedissequamente lo stile di Scott, senza fermarsi però a trasformare il suo film solo in questo. Ricco di omaggi, di riferimenti di grandezza ed epicità verso il suo protagonista, di echi musicali e visivi che, in situazioni diverse, avrebbero reso il prodotto già un fossile in partenza, questo sequel riesce a utilizzare questi elementi come propulsori della sua carica empatica, affiancandoli a scene d’azione che tengono lo spettatore incollato alla sedia, ricche di tensione e adrenalina, montate seguendo un concitato ritmo, che non sfigura davanti ai più cacofonici dei prodotti action moderni. E se sulla carta sembra stiamo parlando di un ammassarsi di troppa roba difficile da gestire, il lavoro finale è di un equilibrio e una semplicità funzionale ammirevole, in cui i cliché, quando presenti, vengono affrontati e rimbalzati con ironia e destrezza, in cui c’è spazio per risate, ricordi e sentimenti che non limitano la sua fruizione, ma rendono il film apprezzabile da uno spettro di pubblico davvero molto ampio.