A partire dal prossimo 12 ottobre 2023, Hideki Kamiya e PlatinumGames prenderanno strade diverse. Come un fulmine a ciel sereno, il game designer nipponico e uno dei tre fondatori dello studio di Osaka ha annunciato la sua imminente e improvvisa partenza dopo ben 16 anni di servizio all’interno della sua creatura. Tra grandi successi e qualche buco nell’acqua, le opere di Kamiya all’interno di PlatinumGames hanno sempre seguito una particolare filosofia artistica, sia nella loro estetica che nella formula di gameplay: puro, esuberante e incontrollato caos. Un po’ come la fantasia di quel ragazzaccio in tuta da motociclista cresciuto a Matsumoto, nella Prefettura di Nagano e che passava il proprio tempo libero tra un episodio di Ultraman, un film di Godzilla e una partita a Castlevania, The Legend of Zelda a Link to the Past, Super Punch-Out o tantissimi altri titoli dell’era Super Nintendo. Un mix di ispirazioni a cui il director ha attinto durante la sua carriera e che in questo speciale cercheremo di riassumere non solo per rendere omaggio a una delle menti più influenti del panorama videoludico nipponico contemporaneo, ma anche per tirare le somme sulla sua carriera, in attesa dell’inizio della sua prossima avventura.
Hideki Kamiya e CAPCOM: la nascita del maestro dello “Smockin’ Sexy Style”
Seguendo le orme di game designer storici come Shigeru Miyamoto e Masanobu Endo, il giovane Kamiya passò dall’essere un semplice lettore del Family Computer Magazine al voler diventare uno sviluppatore di videogiochi fatto e finito, inviando subito dopo la laurea svariate candidature agli studi più blasonati del paese come SEGA e l’allora Namco, opzioni che però terminarono con un nulla di fatto: da un lato SEGA aveva inizialmente snobbato il profilo della nuova leva e dall’altro Namco avrebbe preferito vederlo in un ruolo diverso da quello dello sviluppatore. Questo porta Kamiya ad ottenere nel 1994 un ruolo di system planner all’interno di uno dei team di CAPCOM, durante i lavori del primo capitolo della serie Biohazard (da noi conosciuto come Resident Evil) per la neonata PlayStation. Assieme alla direzione di Shinji Mikami e alle capacità nel dirigere la creazione del gameplay sparatutto a camera fissa, il primo Resident Evil divenne una delle tante killer application della console Sony portando quindi i capoccia di Capcom ad approvare lo sviluppo di un secondo capitolo, e per il quale questa volta Kamiya ne avrà le complete redini ottenendo il ruolo di Director.
Dopo una serie di tira e molla creativi con Shinji Mikami, non del tutto convinto della visione di stampo hollywoodiano proposta da Kamiya, i due riuscirono a trovare un compromesso vantaggioso – anche grazie agli interventi dello sceneggiatore della serie Noboru Sugimura – rielaborando il tutto in una versione finale di Resident Evil 2 che sì, manteneva i toni cinematografici previsti dal nuovo director, senza però snaturare l’atmosfera di terrore e pericolo che aveva fatto la fortuna del suo predecessore. Il risultato? Un successo sia in patria che nel mercato globale, superando il tetto delle 4 milioni di copie vendute tra le versioni PlayStation e Nintendo 64. Inutile rimarcare l’ovvio, ma questo successo non portò solo allo sviluppo di un terzo capitolo (questa volta affidato a Kazuhiro Aoyama) e di un quarto capitolo “next-gen” in grado di mettere in risalto le capacità tecniche di PlayStation 2, diretto ancora una volta dal buon Hideki. Ambientato all’interno di uno scenario ispirato all’architettura Gotica Europea, questa prima versione di RE4 vede come protagonista Tony Redgrave, un uomo solitario dalle peculiari abilità soprannaturali dovute ad un qualche fenomeno biotecnologico. Man mano che lo sviluppo andava avanti, seguendo lo stile del badass guy tanto voluto da Kamiya, nella mente del team cominciò ad insinuarsi un dubbio non di poco conto: “questo videogioco non ha niente a che fare con Resident Evil.”
E fu così che, dopo un incontro con il solito Shinji Mikami, che il titolo cambiò volto. Via gli zombie, benvenute marionette, ragni di lava, cavalieri spettrali e creature demoniache; via Tony Redgrave e benvenuto Dante, protagonista di Devil May Cry e primo esponente di un nuovo genere di videogiochi, incentrato sulla pura azione e tecnica pad alla mano: il Character Stylish-Action Game. Affidandosi a un gameplay frenetico, in cui il giocatore più abile poteva letteralmente danzare tra i cadaveri dei nemici in una pioggia di fendenti e proiettili e un cast di personaggi in grado di ridefinire la definizione di “tamarrata”, Devil May Cry (2001) divenne una delle perle più splendenti dell’epoca PS2 catapultando Kamiya e il Team Little Devils nell’olimpo videoludico. Nonostante il successo però, né lui né il team di sviluppo furono incaricati dello sviluppo del suo sequel, scelta che portò non solo ad un Devil May Cry 2 in grado di rispettare le premesse e la qualità del suo predecessore, ma che inasprì in un primo tempo il rapporto tra Hideki Kamiya e CAPCOM.
Clover Studio: il vento della creatività
E cosa si può fare quando ti chiudono una porta in faccia? Semplice: si buttano giù i portoni con la potenza di un supereroe in tutina. Concepito come uno dei Capcom Five (assieme a Resident Evil 4 e Killer7) sviluppati per Nintendo GameCube, Viewtiful Joe venne sviluppato come un vero e proprio “progetto personale” di Kamiya, una prova di stile che mischiava l’esperienza ottenuta con Devil May Cry all’interno di un gameplay Beat ‘em Up in 2D che incentrava tutto sul perfetto equilibrio tra i più classici trope del panorama fumettistico americano con l’irriverenza e la talvolta assoluta follia del mondo Tokusatsu nipponico. E il gioco andò… Sorprendentemente bene se consideriamo i numeri che faceva il GameCube all’epoca, al punto da ottenere un porting per PS2 e subito dopo un sequel diretto affidato questa volta a un nuovo gruppo di sviluppatori, una sussidiaria di Capcom fondata da Shinji Mikami e Atsushi Inaba e dedita alla creazione di titoli senza particolari limitazioni creative da parte di terze parti esterne.
Questo ha permesso al piccolo gruppetto di “ribelli” avventurarsi in folli sperimentazioni, dando alla luce non solo un Viewtiful Joe 2 che andava ad espandere e a migliorare ulteriormente le meccaniche proposte nel primo capitolo, ma anche diversi spin-off per console come il Nintendo DS (Viewtiful Joe: Double Trouble) e GameCube (Viewtiful Joe: Red Hot Rumble). Progetti minori affidati alle “nuove leve” del futuro mentre i veterani del mestiere come lo stesso Hideki Kamiya erano al lavoro sul prossimo grosso progetto firmato Clover. Basato attorno al tema della “ri-connessione con la natura” e ispirato ai miti del folklore giapponese, Okami si proponeva come un Action-Adventure in cui la varietà dello “Stylish Action alla Kamiya” si unisce al senso di wonder e avventura presente in altre saghe come The Legend of Zelda, affermandosi come una delle opere in cel-shading più affascinanti dell’era PS2/GameCube, oltre che a rappresentare il proverbiale “canto del cigno” nella brevissima vita di Clover Studio.
L’insuccesso commerciale di Okami, rimasto all’interno di una ristretta nicchia di appassionati e il flop commerciale di God Hand – altro titolo sviluppato da Clover sotto la direzione di Shinji Mikami – portarono le alte sfere di CAPCOM a chiudere lo studio nel 2007, intascandosi tutte le proprietà intellettuali e portando a un esodo di massa della maggior parte dello staff. Ancora una volta, il destino crudele a Hideki Kamiya la possibilità di dare sfogo alla propria vena creativa. Ed è stato proprio in quel momento che – in un gesto che può essere definito come un grosso dito medio contro quegli stessi salarymen che più e più volte avevano messo ostacoli e limiti sempre più grandi – Kamiya, Inaba e Mikami decisero di fondare una propria software house indipendente. Un seme pronto a germogliare.
PlatinumGames: “Ora sono diventato Hideki Kamiya, distruttore di insetti”
Prodotto dall’unione della neonata Seeds Inc. dei tre ex-Clover e Odd Inc. di Tatsuya Minami, PlatinumGames cominciò fin da subito a suscitare l’interesse dei grandi publisher dell’industria come SEGA, ottenendo la possibilità di sviluppare i cosiddetti Platinum Three: MadWorld, Vanquish e dulcis in fundo Bayonetta, l’IP che sarebbe diventata la postergirl e mascotte dell’azienda durante i primi anni di attività. Stuzzicato dalla volontà del producer e collega Yosuke Hashimoto di ripartire dalle origini action-oriented di Clover, il buon Hideki Kamiya iniziò a buttare giù le prime idee di quello che sarebbe poi diventato il gioco con protagonista l’affascinante strega, riprendendo il gameplay stylish del primo Devil May Cry e portandolo all’ennesima potenza dando al giocatore un’esperienza che ad alti livelli permetteva di dominare il campo di battaglia a 360°, tra power-up sempre più folli come la possibilità di fermare il tempo tramite il Witch Time, nemici angelici dalla difficoltà via via sempre più ripida e crudele – sfido chiunque ad affermare di aver sconfitto Glorious & Gracious al primo tentativo – e soprattutto una trama che non faceva altro che NON prendersi sul serio nonostante la premessa che vede una femme fatale di un’epoca lontana risvegliarsi dopo un lungo sonno per combattere le forze “malefiche” della luce… A suon di motoseghe, razzi ed evocazioni demoniache. Fantastico!
Con queste premesse e un effettivo buon risultato in termini di vendite e consensi, alcuni di voi potrebbero pensare che all’epoca SEGA non avrebbe avuto problemi nell’approvare l’inizio dei lavori su un sequel. Beh, no. Per qualche motivo ancora oggi non proprio ben specificato, SEGA interruppe i finanziamenti dedicati allo sviluppo del gioco, ancora in fase di piena produzione, portando PlatinumGames a scegliere tra due strade: proporre il gioco a qualche altro publisher oppure cancellare tutto e lavorare sul prossimo progetto. E proprio nel momento in cui la sorte stava per favorire la seconda opzione… Qualcuno di inaspettato si fa avanti: Nintendo. Forti dell’esperienza avuta durante lo sviluppo di The Wonderful 101, altro titolo “Made in Kamiya” che ricalcava l’estetica e l’eredità Tokusatsu-ludica di Viewtiful Joe, l’azienda di Kyoto si offrì di co-sviluppare Bayonetta 2 e rendere il titolo una delle release principali in esclusiva su Wii U. Ora, sebbene questo secondo capitolo non abbia la vera e propria firma di Kamiya – che durante la produzione ha assunto le vesti di semplice supervisore – l’uscita di Bayonetta 2 su Wii U ha segnato un particolare momento della sua carriera, non tanto per quanto riguarda la sua crescita come game designer quanto come internet personality. Non tutti infatti presero la notizia dell’esclusività del titolo all’interno di una console non proprio così popolare come Wii U con particolare entusiasmo, con alcuni di questi fan un po’ troppo “peperini” che iniziarono ad inveire (anche in modi piuttosto accesi) all’interno del profilo Twitter di Kamiya. Una quantità di bile e veleno digitale talmente grande che costrinse il buon pelatone a commettere l’insano gesto: bloccare qualsiasi interazione non rispettasse il suo spazio personale.
Col passare degli anni, l’aggressività di Kamiya verso i commenti indesiderati divenne un vero e proprio meme all’interno del mercato videoludico, uno dei pochissimi in grado di trascendere e arrivare all’interno di un videogioco. In questo caso, la frase “If you need to learn how to talk to a lady, ask you mom” (se vuoi imparare a parlare con una donna, chiedi a tua madre) che Bayonetta pronuncia all’interno di Super Smash Bros. è un riferimento alle centinaia di risposte simili con il quale Kamiya era solito rispondere. E per farvi capire ancora meglio la dedizione di questo “assoluto pazzouomo” sul voler ripulire il proprio feed di Twitter (mi rifiuto di chiamarlo X, mi spiace) dagli insetti che lo tormentano, un video del ricercatore videoludico Nick Robinson ha rivelato che nel 2019 il numero di utenti bloccati ammontava a una cifra che superava i 17.000 profili. Un numero folle che negli anni non ha fatto altro che aumentare, soprattutto nel 2022 quando – a pochi giorni dall’uscita di Bayonetta 3 – il caso attorno alle affermazioni della doppiatrice originale Hellena Taylor e le poche informazioni a disposizione prima del reportage di Jason Schreier infiammarono gli animi dell’utenza, portando a una nuova serie di ban così violenta che costrinse gli admin del social network a disattivare il profilo di Kamiya per qualche ora.
Al di là di questo piccolo momento d’infamia, gli ultimi anni di Kamiya in PlatinumGames nel ruolo di game designer e director possono essere riassunti con il seguente termine: sfiga, tanta sfiga. Da un lato abbiamo piccoli progetti come Sol Cresta, uno sparatutto in verticale puramente arcade di tributo e sequel dei vecchi titoli sviluppati da Hamster Corporation usciti negli anni ‘80, la supervisione di Astral Chain, e la campagna Kickstarter per la ri-edizione multipiattaforma di The Wonderful 101; dall’altro lato abbiamo Scalebound, il compianto progetto che sarebbe dovuto essere sviluppato in collaborazione con Microsoft e che purtroppo non vide mai la luce a seguito di una fase di development hell che tra meccaniche e feature ambiziose, inesperienza su Unreal Engine 4, incomprensioni tra le due parti e la condizione del brand Xbox durante l’ottava generazione di videogiochi, portarono alla cancellazione del gioco. Un vero peccato se consideriamo che questo sarebbe stato ed effettivamente è l’ultimo progetto ad alto budget di Hideki Kamiya presso PlatinumGames, ancora una volta beffato dalla sorte e impossibilitato ad esprimere al 100% la sua visione creativa.
Hideki Kamiya e il suo futuro: dove andrai, Leggendario Cavaliere Oscuro?
Siamo infine giunti alla conclusione di questo viaggio nel tempo, e ancora una volta la domanda è sempre la stessa: e adesso? A dire il vero qualsiasi risposta potrebbe entrare nel campo delle mere speculazioni, al momento della scrittura di questo articolo non sappiamo le vere motivazioni dietro all’addio di Hideki Kamiya da PlatinumGames – notizie che sicuramente arriveranno il millisecondo successivo alla pubblicazione di questo pezzo – né tantomeno sappiamo che ne sarà di Project G.G., l’ultimo titolo della “Superhero Trilogy” ispirata alla cultura Tokusatsu e del quale al momento non si hanno ancora notizie più dettagliate, e il rischio di una possibile cancellazione a ridosso della partenza del suo Lead Director potrebbe purtroppo non essere così improbabile.
Quel che è certo è che mai come ora le porte a disposizione di Hideki Kamiya risultano innumerevoli e piene di nuove occasioni. Non vedo improbabile infatti l’inserimento del pelatone all’interno di un conglomerato cinese o arabo, seguendo un po’ il trend che ha visto altri creatori come Hiroyuki Kobayashi o Toshihiro Nagoshi. Magari con uno studio del tutto nuovo, un “Kamiya Studios” che ruoterebbe per forza di cose attorno alla visione e figura del suo fondatore, quest’ultimo potrà finalmente dare sfogo alla propria creatività senza intoppi o particolari ostacoli. O chi lo sà, magari la rinnovata ottima reputazione di CAPCOM negli ultimi anni potrebbe riavvicinare il designer alla serie di Resident Evil. Sicuramente ci vorrà molto tempo e per i prossimi anni la figura di Hideki Kamiya potrebbe rimanere nell’ombra fino a data da destinarsi. Ma fate attenzione! Perché proprio come Devil May Cry ci insegna, sottovalutare il Leggendario Cavaliere Oscuro potrebbe risultare fatale.