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Etrom The Astral Essence: intervista a Fabio Belsanti, CEO di AgeOfGames

“In seguito agli sconvolgimenti dell’era della distruzione alcuni uomini hanno sviluppato delle capacità eccezionali che alcuni definiscono psichiche e altri magiche. Tali capacità, connesse al concetto di aura vitale, sono sfruttate dagli eserciti per creare unità di soldati fuori dal comune.

Ufficialmente, tutte le manifestazioni denominabili come “magia” sono considerate una stolta superstizione eretica da estirpare, ma in realtà esiste un mondo esoterico sotterraneo, costituito da sette, gruppi e singoli individui capaci di celebrare antichi rituali per evocare potenze sovrannaturali, compiere viaggi in altre dimensioni e fondere la tecnologia con le scienze occulte.

Al centro di queste contraddizioni, tra realtà e propaganda, si collocano le attività delle principali industrie militari che hanno dato vita, più o meno in segreto, a complessi armamenti techno-magici.

L’umanità, assuefatta a uno stato di guerra endemica, interna ed esterna, vive in queste oscure società piramidali, nell’illusione della potenza delle sue armi e delle sue fortezze, mentre l’Abisso, percorrendo sentieri nascosti, avanza inesorabile.”

In occasione del ritorno sui nostri monitor di Etrom The Astral Essence, nella sua versione celebrativa del 20° anniversario dalla pubblicazione rilasciata su Steam lo scorso 2 novembre, abbiamo il piacere di riportarvi una piacevole chiacchierata con Fabio Belsanti, il CEO, fondatore e principale game designer di Age of Games che, agli albori del nuovo millennio, si imbarcò in una missione quasi impossibile per dare forma digitale ai mondi straordinari partoriti dalla sua fantasia. Dalle sue parole tracciamo un’importantissima testimonianza, attuale ancora oggi sotto certi aspetti, incentrata su cosa ha significato muovere i primi passi nel settore dello sviluppo videoludico italiano, e di come un gruppo di giovani sognatori ha portato a termine l’impresa mosso soltanto dal fuoco delle proprie passioni.

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D – Etrom è un videogioco decisamente sui generis, molto peculiare: le sue contaminazioni un po’ fantasy, fantascientifiche e tecnologiche eravamo abituati a vederle soltanto in produzioni tipo Final Fantasy, e all’epoca risultavano estremamente originali. Come è scattata questa scintilla di voler sviluppare qualcosa del genere? E come hai convinto il team a seguirti, ammesso che tu non glielo abbia semplicemente ordinato!

R – All’inizio, tutto nasce da una mescolanza di passioni e interessi personali: non c’è mai stato alcun tipo di ricerca di mercato e opportunità, men che meno di fondamenti di game design o buonsenso, ma il progetto ha preso forma da un puro e semplice desiderio. Tali passioni provenivano da due grandi elementi che mi hanno da sempre guidato: da un lato il medioevo, che ha segnato anche il mio percorso accademico nello scorso millennio (Fabio è laureato in Storia Medievale, ndr) e al quale ho dedicato tempo, attenzione e studio, e dall’altro l’amore incondizionato per la fantascienza. Il terzo grande punto di interesse della mia vita è stato l’esoterismo, in particolare quello occidentale, senza tralasciare i possibili punti di contatto con la sua declinazione orientale.

Dopodiché, in qualche modo sono stato influenzato da alcuni grandi classici di culto che non sono mai divenuti mainstream, fra tutti uno che ha tentato di muovere qualche passo impacciato per diventare qualcosa di più che un semplice gioco di ruolo da tavolo, ossia Mutant Chronicles (gioco di ruolo della Target Games ambientato in un mondo post-apocalittico e pubblicato originariamente nel 1993, che ha generato altri giochi di carte collezionabili, wargame, videogiochi, romanzi, fumetti e un film omonimo basato sulla medesima ambientazione, ndr) che adoravo già da tempo. E tra l’altro, quando ero al liceo o comunque già da giovane ventenne, quindi da “game designer naturale” col mio gruppo di amici, ci piaceva moltissimo non solo giocare ma smontare e modificare  i regolamenti. Quindi applicavamo in modo spontaneo una sorta di reverse engineering, che poi è praticamente alla base delle analisi ludico/videoludiche e della costruzione delle opere successive, e nel mio gruppo di ruolo delle superiori interpretavo un personaggio che si chiamava per l’appunto Etrom, perciò c’è stato anche questo forte gusto autobiografico nella genesi del titolo. Oltre a Mutant Chronicles, altri due sistemi hanno catturato la mia attenzione nel corso degli anni: il primo è stato Rifts (gioco di ruolo multigenere creato da Kevin Siembieda nell’agosto 1990 e da allora pubblicato ininterrottamente da Palladium Books, si svolge in un futuro post-apocalittico con elementi tratti da cyberpunk, fantascienza, fantasy, horror, western, mitologia e molti altri filoni, ndr), forse ancora più sconosciuto e di nicchia, e il secondo RuneQuest (gioco di ruolo che la Chaosium pubblicò nel 1978, originariamente progettato da Steve Perrin, Ray Turney, Steve Henderson e Warren James, e incentrato sul mitico mondo di Glorantha ideato da Greg Stafford, ndr), un grande classico che mi colpì tanto per il contesto molto più fantasy che per il set di regole. Questi tre giochi, fusi in qualche modo insieme, hanno contribuito a creare la mia personale visione del mondo di Etrom, a cui poi si aggancia una grandissima passione nei confronti di 1984 di Orwell maturata dopo i vent’anni. Il motore narrativo è insomma estremamente spirituale, astrale per l’appunto, inserito però all’interno di un’ambientazione fantastica e fantascientifica che, scavando a fondo, lascia emergere tutte le sue connessioni occulte ed esoteriche.

D – Da dove viene il nome Etrom, evidente palindromo della parola “morte”?

R – È il nome del personaggio che giocavo all’interno delle avventure in Mutant Chronicles, “masterizzate” all’epoca dai miei due cari amici Davide e Marcello: in effetti, il suo appellativo completo era Etrom Zediostruin… Etrom mi sembrava un nome “potente”, in grado di sfidare anche la morte per l’appunto. Sono stato sempre un esistenzialista, di carattere piuttosto scettico e pesante, con una visione del mondo e della condizione umana non proprio solare: d’altro canto, queste caratteristiche non mi hanno spinto verso il nichilismo puro, e così nel gioco ho lanciato a mio modo una sfida impossibile e beffarda alla Signora con la Falce per cercare non tanto di vincere, dato che non si può, ma di trovare il coraggio per sopportare il fardello della nostra fragile esistenza.

Ti dirò di più: il cognome Zediostruin è un altro sciocco e giovanilistico anagramma, ossia Distruzione, quindi il personaggio si chiamava Morte e Distruzione. Volevo probabilmente esorcizzare queste forze, queste evidenze della vita e della storia che, a vari livelli e con differenti intensità individuali, ci portiamo dentro e siamo costretti a subire nel continuo rinnovamento di tutte le parti di questo sconfinato, misterioso universo in cui siamo precipitati per recitare e giocare il ruolo di noi stessi.

D – Quanto era grande il team di sviluppo di Etrom e com’erano suddivisi i ruoli al suo interno?

R – Il team era molto risicato, tanto che persino i credits sono stati gonfiati per dare l’impressione che fossimo più persone. All’inizio era composto dal sottoscritto, Luciano Iurino e Dario Pelella, rispettivamente game designer, lead artist e programmatore. Poi abbiamo avuto un secondo sviluppatore che ha lavorato sui particellari, altre figure come Cristiano Convertino, caro amico ed ex socio, che fece le musiche e ci aiutò nel montaggio delle interfacce, un animatore che venne rocambolescamente da Roma per dare vita ai personaggi, un altro grafico aggiunto e caro amico, Luca Eberhart detto DonZen, che ha fatto tanto in una seconda fase… insomma, eravamo pochi ma si fidavano tutti di me, e poi condividevano abbastanza la mia essenza nerd, quindi l’idea piacque da subito. Certo, su alcuni passaggi narrativi e testuali ad oggi avrei parecchie critiche da muovermi, soprattutto alla luce della mia esperienza di insegnamento presso la Link Campus Academy (Fabio è docente di Game Design e Interactive Storytelling per il corso di laurea in Innovative Technologies for Digital Communication, curriculum Video Games, ndr), però sull’ambientazione feci oggettivamente un ottimo lavoro creando un nucleo molto forte e ben strutturato, merito in gran parte dell’interesse che ho sempre nutrito non solo per la storia ma anche per la geopolitica e quindi per la costruzione degli stati, i comportamenti politici, le coerenze interne che, pur rendendolo molto intrigante, forse erano persino di troppo nel contesto del gioco (ride, ndr). Come playtester poi coinvolsi le persone con cui ai tempi giocavamo di ruolo intorno ad un tavolo.

Etrom

D – Perché avete scelto un action RPG e non un’altra tipologia di gioco per dare forma al mondo di Etrom, come ad esempio un RPG convenzionale a turni stile Baldur’s Gate o un’avventura grafica?

R – A parte il delirio di onnipotenza, che magari avrebbe dovuto spingermi a confezionare qualcosa dalla portata più ridotta, tra di noi c’erano vari appassionati di Diablo che all’epoca andava abbastanza per la maggiore, e così con quella scelta ci sembrò di andare maggiormente incontro ai gusti del mercato. Inoltre, era uscita da poco un’operazione di una casa tedesca che aveva funzionato perfettamente e si collocava a metà tra Diablo II e Diablo III. Il titolo coniugava un po’ il fascino nostalgico delle produzioni di una volta con la novità del momento, ed univa al gameplay piuttosto semplice una nutrita serie di caratteristiche che gli fecero ottenere i favori di critica e pubblico, come una gigantesca mappa esplorabile precaricata e la possibilità di andare a cavallo.

D – Ma certo, parliamo di Sacred (sviluppato da Ascaron, ndr).

R – Esatto, proprio lui! Ebbe un successo incredibile malgrado i suoi limiti e un sistema di protezione assurdo, quindi ci sembrò un’ulteriore conferma che la strada intrapresa era quella giusta. In realtà, utilizzando un’ambientazione completamente diversa, facendolo in 3D, sbagliando il sistema di controllo e la gestione della telecamera senza alcun margine per metterlo a posto, come abbiamo peraltro prudenzialmente scritto sulla pagina Steam della nuova edizione, il risultato finale non fu all’altezza delle nostre aspettative. Col senno di poi, come dici tu, sarebbe stato più giusto pensare ad un genere diverso, quantomeno un turn-based per sviluppare al massimo la componente narrativa. Purtroppo non era un buon periodo per questo genere, non c’era stato ancora il ritorno favorito dalle nicchie indipendenti su Steam, tanto che un altro titolo strategico uscito da poco e basato sul regolamento di Dungeons & Dragons (Pool of Radiance: Ruins of Myth Drannor, ndr) andò molto male. Avevo redatto anche un regolamento da tavolo, che sarebbe stato perfetto da implementare in una struttura a turni ed avere una progressione di storia e dialoghi più cadenzata, ma avrebbe richiesto delle modalità di sviluppo impegnative che non avremmo potuto permetterci rispetto ad un impianto action più immediato… pensa che il programmatore lavorava a distanza, e veniva a fare delle sessioni intensive a Bari durante le quali non si dormiva per una settimana!

D – Quindi Etrom scaturisce perlopiù dalla voglia di trasporre le tue esperienze ruolistiche in qualcosa che possa raggiungere un pubblico più vasto?

R – Per l’esattezza, Etrom nasce come opera crossmediale, o quantomeno era questa l’ambizione che inseguivamo. Nel panorama italiano, credo sia stata la prima opera a voler mettere in connessione con una singola IP più mezzi di comunicazione tra loro: un romanzo, un gioco di ruolo, un fumetto e un videogame, con quest’ultimo che ovviamente ne avrebbe costituito la punta di lancia.

D – Operazioni del genere di solito germogliano in territori come il Giappone, dove però anche i budget a disposizione sono spesso molto diversi…

R – Come società ci siamo formati tra il 2000 e il 2001, con un capitale di partenza stellare di 500000 lire (circa 260 euro, ndr) e i computer di casa, forti di mille peripezie superate negli anni addietro. Prima di Etrom c’era stato Kien, un gioco per Game Boy Advance con il quale firmammo e strappammo ben tre contratti perché, pur essendo molto valido, non essendo una licenza nota era un rischio che gli editori non si sentivano di correre a causa del costo di stampa delle cartucce: Nintendo infatti se le faceva pagare 20 dollari l’una a prescindere dal fatto che venissero vendute oppure no, perciò di fatto se non eri uno sviluppatore first party o non avevi una grossa licenza alle spalle era quasi impensabile rilasciare un titolo sulla piattaforma. Adesso che è scaduto il brevetto su tali cartucce è finalmente possibile stamparle senza costi aggiuntivi, perciò anche la storia di Kien dovrebbe giungere a conclusione grazie ad un editore canadese che si è mostrato propenso a risollevarne le sorti e al rinnovato interesse dei giocatori per il retrogaming. Ad ogni modo, malgrado la batosta ricevuta, decidemmo di imbarcarci in un progetto ancora più grande lasciandoci guidare dalle nostre passioni, ed i fondi messi insieme per lo sviluppo necessario provenivano da una causa intentata nei confronti di un nostro cliente, per il quale svolgemmo service grafico: i 100000 euro che ci doveva pensò bene di pagarli con cambiali a vuoto, e così in tribunale patteggiò per 16000 che divennero il compenso per il programmatore, mentre noialtri fummo costretti a rinunciare a qualsiasi prospetto di paga e ad ammortizzare di tasca nostra i costi dell’ufficio. Insomma, questo favoloso progetto crossmediale che conteneva al suo interno un vero e proprio universo fu il frutto di due anni di lavoro e ben 16000 euro di budget! (ride, ndr)

D – Al di là delle questioni economiche, cui purtroppo non si può mai prescindere, quali sono stati gli ostacoli più grandi che avete incontrato nel muovervi in una realtà come la nostra, che storicamente non ha mai mostrato particolare predilezione o interesse per le opere interattive?

R – Il dramma più angoscioso è stato quello con le istituzioni, sia a livello imprenditoriale che di crescita: immagina una società di giovani ventenni che iniziano a lavorare in proprio dal nulla e che organizzano addirittura una sorta di emigrazione al contrario, con il suddetto animatore che scendeva da Roma a Bari mentre il buon DonZen addirittura dal Trentino, abbandonati totalmente dallo Stato, Dopo l’annuncio di Etrom nel 2003, abbiamo trascorso metà dello stesso anno, tutto il successivo e buona parte del 2005 a sviluppare, perciò diciamo quasi due anni a testa bassa. Tuttavia, la pubblica amministrazione non si era dimenticata totalmente di noi poiché, non essendo stati seguiti in maniera corretta dai commercialisti, gli studi di settore avevano stabilito che la nostra piccola società doveva corrispondere un quantitativo spropositato di tasse. Capisci che all’epoca per noi era una situazione sconosciuta, stavamo ancora imparando tutto anche dal punto di vista fiscale, perché per me una fattura al massimo era quella che facevano le streghe. (ride, ndr)

E poi, l’ambiente dello sviluppo in Italia era, a parte qualche amico incontrato qua e là, ancora terribilmente ostile e competitivo, una sorta di tutti contro tutti con il quale ci scontrammo una volta fatto il primo passo, esacerbato ancora di più dalle purtroppo consuete tensioni che pongono su due fronti opposti e contrari il nord e il sud, qualunque sia l’ambito professionale. In seguito al lancio di Etrom, sui forum dell’epoca lessi di una persona che non si stupiva della sua scarsa qualità, perché dopotutto era stato realizzato da un gruppo di “zappaterra”. Di contro, in maniera quasi inaspettata, il mercato internazionale reagì con maggiore positività al prodotto dei nostri sforzi collettivi e la press release, distribuita tramite una Internet che non era certo quella dei giorni nostri ma che comunque riusciva a raggiungere i soggetti giusti, giunse all’attenzione di Electronic Arts e ubisoft che mi contattarono per accordarsi sulla possibile distribuzione del gioco.

D – Fantastico! E com’è andata a finire?

R – Purtroppo, il passaggio successivo prevedeva di condividere con loro una demo di Etrom… demo che non esisteva, perché nessuno di noi aveva previsto quest’eventualità né potevamo permetterci di interrompere la lavorazione per consolidare solo una piccola parte, e così la loro richiesta non ebbe seguito, Ad ogni modo, ricevere da aziende così grandi un riconoscimento della bontà concettuale del progetto fu una grande soddisfazione per tutti noi.

D – Un gran peccato… parlando di lavorazione, di solito in ogni progetto ci sono alti e bassi fisiologici in corso d’opera: puoi raccontarci, se c’è stato, il punto più basso che avete raggiunto durante lo sviluppo di Etrom, e come avete fatto a risollevarvi per concludere l’opera?

R – Confesso che questa fase non l’abbiamo attraversata perché eravamo entrati in una sorta di modalità berserk, e dunque abbiamo tirato dritti come treni fino alla fine senza fermarci neanche per un attimo a mettere in dubbio cosa stavamo facendo, o magari a ridimensionare la portata del gioco… invece sono stati la pazzia e il delirio a guidarci. All’epoca non c’erano nemmeno motori grafici commerciali come adesso, perciò ci affidammo a Dario Pelella perché ne aveva realizzato già uno per conto suo, che poi riadattammo per Etrom. Malgrado non ci siano stati punti bassi durante la fase di sviluppo, però, un lato negativo di questo approccio fu l’ossessiva determinazione di raggiungere il traguardo il prima possibile, che ci spinse a lanciare il gioco non appena quest’ultimo raggiunse una certa stabilità complessiva, senza passare per una fase di test approfondita e per focus group più estesi di qualche manciata di amici, perché approfittammo dell’opportunità di distribuirlo attraverso i canali della GDO alla fine del 2005 grazie ad un accordo con Multiplayer.

Col senno di poi, ho riflettuto a lungo su quanto eravamo riusciti a costruire, pur essendo un team tanto ristretto: un mondo gigantesco che si muoveva su più livelli, città fantascientifiche, quattro Stati diversi ognuno con la propria estetica, poi la parte esoterica, magica… insomma, una gargantuesca pazzia che non ci lasciò tempo per le doverose rifiniture, come mettere a posto il sistema di controllo della telecamera perché, essendo un punta e clicca, la telecamera avrebbe dovuto restare tendenzialmente fissa e a volo d’uccello. Diciamo che è stato questo il punto debole dell’intera fase di sviluppo, ma dovuto a condizioni per l’appunto di contorno rispetto a quelle che erano le circostanze oggettive, e all’opportunità di recuperare almeno in parte i costi sostenuti. La prima “infornata” fu comunque molto buona e ci regalò parecchie soddisfazioni, a differenza di qualche episodio un po’ più drammatico che si sarebbe svolto in seguito e di cui magari ti parlerò più tardi.

D – Quindi ad oggi ritieni l’universo narrativo di Etrom completo, oppure ci sono dei margini per raccontare altre cose, altre storie, altre avventure?

R – Di storie da raccontare ce ne sarebbero potenzialmente infinite, anche perché tra il videogame del 2005 e il romanzo che ho realizzato tra il 2013 e il 2015 apportai diverse modifiche strutturali dato che, come ti dicevo, quando ho concepito quel mondo avevo grandi idee per l’ambientazione ma non ero un bravo scrittore. Iniziai perciò a studiare ed approfondire, anche sotto la guida di Franco Forte, direttore editoriale di Urania Mondadori e Delos Books (casa editrice ed associazione culturale dedita alla fantascienza e alla letteratura di genere, e fondata dallo stesso Forte, Silvio Sosio e Luigi Pachì, ndr): lui mi ha fatto un po’ da mentore e, al termine del mio percorso, volle pubblicare il mio romanzo sotto etichetta Delos, rilasciandolo prima a puntate nel 2013 e poi in versione “extended edition” completa.

Già in quell’occasione ho ampliato il contesto narrativo di Etrom, ho fatto crescere il suo protagonista e ho aggiunto molti altri personaggi, sviscerando tutta una serie di elementi che successivamente sono confluiti in un’altra opera sempre di fantascienza, Numen. Quest’ultimo, realizzato insieme al collettivo CyberScrivens (progetto creativo letterario originatosi dalle menti di Belsanti, Maico Morellini e Lukha B. Kremo) con il quale ho rivisto il testo dell’edizione estesa del romanzo, è stato anche finalista del premio Urania ed è il primo di molti progetti che stiamo portando avanti insieme, tra i quali ci sono anche racconti scritti da altri autori. Perciò sì, di cose da dire ce ne sarebbero tantissime altre, lo stesso Numen è intrinsecamente connesso alle tematiche di Etrom in termini di fantascienza unita alla critica della contemporaneità, nella misura in cui la profezia contenuta nel libro è anche presagio della direzione nefasta che sta imboccando il mondo.

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D – Mettiamo il caso che tu oggi non avessi limiti di tempo né di budget, qual è il titolo ideale che ti piacerebbe realizzare?

R – Al di là di quello che ho già realizzato, intendi (ride, ndr)? Scherzi a parte, il mio sogno da piccolo sviluppatore indipendente è sempre stato quello di cimentarmi in progetti sempre nuovi e stimolanti, ed è un po’ quello che ho trovato con questo collettivo: è un piacere creare ed esplorare nuovi mondi assieme a Kremo e Morellini, dargli forma e sviscerarne ogni singolo aspetto. Al momento abbiamo in cantiere un videogame narrativo per il quale lanceremo un crowfunding l’anno prossimo ma, ti dirò, anche avendo tempo e budget illimitati non sceglierei la via più semplice tipo costruire un banale open world o un MMORPG… al massimo preferirei pagarmi molto, molto bene (ride, ndr)! Tenderei comunque ad avere un team non troppo vasto ma estremamente competente, che tenti di mettere assieme qualcosa di sperimentale ma abbastanza circoscritto, in maniera tale da restare focalizzati sull’obiettivo. La mia intensa passione originaria per i wargame mi spingerebbe ad elaborare un tattico a turni sulla falsariga del primissimo X-COM unito ad una forte componente narrativa, ma il rischio di infarcire il gioco di elementi avanguardistici che per noi potrebbero avere un senso senza però riuscire a trasmetterli al pubblico è sempre elevato, dunque è necessario trovare il giusto compromesso tra innovazione e concept familiari.

D – Poco fa parlavamo degli episodi negativi che hanno seguito la prima stampa di Etrom…

R – Partiamo dal presupposto che a me piace definire Etrom un “insuccesso di successo”, perché già il fatto di essere riusciti a dare forma concreta all’opera possiamo considerarlo un autentico trionfo. La prima infornata, come ti dicevo, è iniziata bene perché il gioco ha avuto una tiratura di 10000 copie vendute a 29,99 euro e, grazie alle royalty concordate sulla vendita, riusciamo a recuperare una buona parte delle spese. Inoltre, disponiamo del controllo totale sull’andamento degli acquisti, perciò non c’è pericolo di ritrovarci con numeri falsati. A questo si aggiungono lettere, post e mail di utenti soddisfatti, che fanno da contraltare ai vari insulti di cui ti ho già parlato, e che ci hanno regalato l’emozione di essere ringraziati per aver concepito un prodotto del genere in Italia. Anche le recensioni non sono eccezionali ma comunque restano abbastanza equilibrate, diciamo che si assestano intorno al 7, non un capolavoro ma un’esperienza in ogni caso godibile grazie a determinati aspetti del gameplay ed al complesso intreccio narrativo, Dopodiché, abbiamo cominciato ad affacciarci al mercato internazionale, in particolare Russia e Polonia, dove stringiamo accordi con due dei migliori editori per quei territori: al di là dell’aspetto economico vantaggioso e dell’intera localizzazione di cui si fecero carico, le recensioni furono ancora più alte arrivando quasi al 9 sulle riviste polacche in conseguenza dell’ottimo pre-marketing svolto da entrambe le case editrici, che hanno garantito al titolo la giusta copertura mediatica.

Dopodiché, arriva il dramma.

Firmiamo anche per la Germania e per la Francia, dove i rispettivi editori però seguono Etrom poco e male, ma il fatto più grave di tutti accade in ambito anglo-americano. Decidiamo di associarci a Digital Jesters (editore britannico di videogiochi con sede a Welwyn Garden City, nell’Hertfordshire, ndr), un accordo che sulla carta aveva numeri decisamente validi e che avrebbe potuto garantire dei risultati eccellenti su quello che, di fatto, era il principale mercato di riferimento. Forti delle circa 20000 copie vendute in Italia tra la GDO e le edicole, delle 10000 in Polonia e delle 30000 in Russia, le prospettive erano di piazzarne almeno altre 50000 per il pubblico inglese. A un certo punto però la compagnia dichiara fallimento e scappa con la proverbiale cassa, contenente la maggior parte dei nostri introiti, così abbiamo ripiegato su un secondo distributore che però non seguì affatto il marketing e le pubbliche relazioni. Accade perciò che, dopo qualche recensione nella media, fra cui un 7.5 da parte di GameZone, qualcuno su GameSpot decide di stroncarci e ci affibbia un incontrovertibile 2. Come ben sai, all’epoca non c’erano ancora YouTuber e simili, dunque il parere delle riviste sia cartacee che digitali era ancora centrale e definitivo: il mio carattere decisamente poco diplomatico un giudizio tanto severo, nonché piuttosto immotivato, e così decido di scendere in campo sui forum di GameSpot e andare a cantargliele, sottolineando come un voto del genere dovevano avercelo assegnato giusto per dimostrare che sapevano essere severi ma che con altri editori più grandi, come Ubisoft o Electronic Arts, non si sarebbero mai azzardati a muoversi nello stesso modo anche nei confronti di un titolo di scarsissimo valore, perché questi ultimi investivano milioni di dollari nelle loro testate e dunque avrebbero avuto un conflitto di interessi.

Per carità, quello che di fatto è un po’ il segreto di Pulcinella non sta a significare che tutti i giornalisti siano corrotti e non esista una critica videoludica che non sia faziosa, tutt’altro, ma non possiamo non far finta che non esista un sistema in cui noi tutti siamo costretti ad operare e all’epoca era facile denigrare qualcosa senza un vero fondamento, magari solo perché veniva fatto trattare da chi non era esperto o addirittura detestava il genere di appartenenza, e così a noi toccò essere penalizzati da una forbice assurda di voti che spaziavano dal 2 al 9. Paradossalmente, oggi viviamo in un mondo in cui i giornalisti sono molto più preparati che in passato, hanno accumulato esperienze e competenze approfondite ed eterogenee che consentono loro di formulare giudizi più consoni, ma di contro le riviste non rivestono più un ruolo predominante e il loro posto è stato preso da content creator di ogni risma, spesso mossi purtroppo non da genuine capacità critiche ma dalle leve del marketing che possono essere manipolate a volontà, trascinandosi dietro una grossa fetta di pubblico che per qualche motivo pende dalle loro labbra. Il fatto poi che tali contenuti siano frequentemente opinabili, anche in termini di buon gusto, per me è una depravazione, una sorta di pornografia informativa che ci sta portando ai livelli dei video che gli spettatori inebetiti del futuro di Idiocracy guardavano tutto il giorno. E forse non ci siamo nemmeno troppo lontani.

D – Ultimissima domanda, poi giuro che ti libero: per quale motivo vorresti che Etrom passasse alla storia, se potessi prendere un singolo aspetto della sua attuale incarnazione?

R – Sicuramente la storia e, più in generale, tutto il contesto narrativo. Quando leggi un classico che riesce a farti sentire parte del mondo che descrive, dei personaggi che lo abitano, una volta giunto alla fine hai la netta sensazione che ti abbia lasciato qualcosa dentro. La prima volta che ho letto 1984 di Orwell, quando ho chiuso il libro ho percepito la netta sensazione di non aver solo sfogliato un certo numero di pagine, ma che quelle pagine avessero lasciato un segno su di me, e per questo sono stato estremamente grato all’autore. Adesso non voglio fare paragoni impossibili ma insomma, anche se oggi al sistema importa soltanto il numero di copie vendute di una certa opera, credo che l’intenzione di ogni autore sulla faccia della Terra sia quello di regalare un’esperienza più o meno indimenticabile ai suoi fruitori, di fare in modo che l’esperienza da lui descritta scavi un solco nei ricordi di coloro che avranno il piacere di viverla.

Questo senza nulla togliere all’intrattenimento puro, per carità, ma a volte constatare che un’azione, un dialogo o una frase pronunciata dai personaggi mentre falciano allegramente demoni a tutto spiano restano impressi anche a distanza di anni, e riescono a stimolare un pensiero o una riflessione nel giocatore, è una delle soddisfazioni più grandi che in quanto autore tu possa mai provare.

Gioca da quando ha messo per la prima volta gli occhi sul suo Commodore 64 e da allora fa poco altro, nonostante porti avanti un lavoro di facciata per procurarsi il cibo. Per lui i giochi si dividono in due grandi categorie: belli e brutti. Prima che iniziasse a sfogliare le riviste del settore erano tutti belli, in realtà, poi gli è stato insegnato che non poteva divertirsi anche con certe ciofeche invereconde. A quel punto, ha smesso di leggere.