Splatterhouse – La Recensione

Sangue, gore e frullati di budella per il reboot di un coin-op di altri tempi. Purtroppo, però, gli anni passano per tutti… [Review]

Questo è uno di quei titoli che solo i trentenni potranno ricordarsi bene. Stiamo parlando, infatti, di un videogioco che risale addirittura alla fine degli anni ’80, quando i coin-op dominavano incontrastati e le software house giapponesi buttavano fuori capolavori uno via l’altro. A dire la verità, Splatterhouse non è che fosse poi chissà che, ma grazie a un’insana dose di violenza (per i tempi, sia chiaro… oggi fa quasi ridere) e alle atmosfere tipicamente da horror di serie B, divenne una vera e propria leggenda. Qua in Italia era spesso noto come il gioco di “Venerdi 13”, questo per via della maschera indossata dal protagonista, che sembrava proprio quella da hockey con cui Jason soleva nascondersi il volto. Inoltre, era possibile anche trovare e raccogliere un machete, arma tanto cara al massacratore di Camp Crystal Lake.
Innegabile, insomma, che Namco abbia tratto ben più di un’ispirazione da questa lunga saga cinematografica, pur prendendo tutt’altra piega a livello di trama. In Splatterhouse la maschera è, difatti, una vera e propria identità, una sorta di demone capace di donare a chiunque la indossi incredibili poteri, non senza pagarne le conseguenze.

Il remake (o reboot?) per Xbox 360 e PS3 nasce proprio seguendo tale concetto, e la sequenza di apertura non fa nulla per nasconderlo. Nostro malgrado vivremo nei panni di Rick, un non certo brillantissimo universitario cui il solito scienziato pazzo ha rapito la ragazza (manco a dirlo, tale e quale alla defunta moglie di costui). Inoltre, giusto per non lasciare le cose a metà, un paio di demoni hanno provveduto ad aprirci lo sterno, abbandonandoci morenti in un lago di sangue. Inutile dire che per salvare la nostra adorata Jennifer non esiteremo a cedere alle tentazioni di questa maschera parlante, che ci assicura forza smisurata e il potere di curare ogni nostra ferita, per quanto grave possa essere. C’è uno scotto da pagare, però: soffriremo le pene dell’inferno e il nostro corpo diverrà un ammasso deforme di muscoli, un po’ come Hulk, ma ancora più brutti. Per amore comunque, questo e altro, no?

Lo sviluppo di Splatterhouse è stato piuttosto travagliato, passando nel corso degli anni di mano in mano, creando chiaramente ritardi e costringendo i vari team che si sono affaccendati su questa produzione a riprendere non poche volte il lavoro di altri.
C’è da dire che quando si parte con l’idea di creare un remake di un prodotto d’altri tempi, il rischio di tirare fuori qualcosa di qualitativamente mediocre è sempre dietro l’angolo. Di esempi in questi anni ne abbiamo avuti a bizzeffe e sappiamo bene che quando c’è da tradurre sprite e mondi bidimensionali in poligoni e ambienti treddì, le cose si fanno molto difficili.

Di base il lavoro fatto dai game designer su Splatterhouse è encomiabile: lo spirito ultraviolento, lo splatter finanche eccessivo e – più in generale – l’atmosfera deviata dell’originale coin-op non è stata tradita in alcun modo. Rick uccide, squarta, affetta, spezza i suoi nemici (tutti essere demoniaci, eh) in un vero e proprio tripudio di sangue e budella, il tutto condito dallo spirito cinico e beffardo della maschera, che non manca di sottolineare con un notevole sarcasmo ogni passaggio della trama. Nel gioco sono anche presenti un mucchio di parolacce (rigorosamente in Inglese, ma tradotte testualmente con una certa perizia), ma del resto il PEGI 18 non l’hanno messo sulla scatola a caso.

Insomma… di base ci troviamo di fronte a una sorta di picchiaduro, con qualche raro sprazzo di platform e nessun enigma che costringa il nostro cervello ad attivare più di due neuroni assieme. Ci sta tutto: stiamo parlando di Splatterhouse e, in effetti, nei primi livelli le cose funzionano. Magari la grafica (un vago simil cell-shading) non sarà lo stato dell’arte, ma la colonna sonora molto death metal e la buona varietà di mostri da sbudellare riesce a tenere in piedi tutta la produzione fino a circa metà della storia.
Diciamo questo perché dal sesto livello in avanti le cose precipitano a spirale. Tanto per cominciare, da quel punto in avanti si inizia ad assistere sempre più frequentemente a un riciclo di situazioni: prima c’è un demone boss, poi ce ne sono due, poi ci aggiungono dei mostrilli minori, mixando e frullando il tutto in una formula che negli ultimi due stage raggiunge davvero dei livelli imbarazzanti, tanto che lo scontro finale è da mettersi le mani nei capelli.

L’impressione che se ne ricava è quella di una produzione dove a un certo punto, per mancanza di tempo e/o di talento, si è iniziati a riproporre sempre le stesse situazioni. A poco serve sboccare nuove mosse e abilità, anche perché purtroppo le combo sono quasi inesistenti e si finisce, per motivi puramente pratici, con l’utilizzare sempre il “pugno forte” fino a consumarne il relativo tasto. I Quick Time Event che caratterizzano le “fatality” sono un po’ lo specchio di quanto detto sopra: spassose le prime volte, mortalmente noiose alla 50esima uccisione. A questo proposito ce ne è una che definire vomitevole è poco, considerando che per ammazzare definitivamente un particolare demone dovrete infilargli letteralmente il braccio nel sedere. Noi siamo gente poco impressionabile, ma a tutto c’è un limite.

In conclusione, Splatterhouse fa davvero rabbia, perché di base poteva pure essere un titolo piacevole, ma l’incuria con cui è stato portato avanti e l’evidente calo qualitativo visibile dopo le prime ore di gioco (che non superano globalmente le 6/7), finiscono per pesare non poco sulla valutazione generale. È pur vero che, una volta sbloccati, potrete giocarvi i tre coin-op originali: per i nostalgici il gioco potrebbe forse valere la candela…

Maratoneta di serie TV, appassionato di cinema e accumulatore compulsivo di DVD, oltre che PC Master Race da almeno 15 anni; in tutto questo ogni tanto si ricorda pure di essere uno studente di biologia.