Detroit, il nuovo film di Kathryn Bigelow presentato in Italia alla Festa del Cinema di Roma, ti lascia come minimo interdetto. Al peggio ti stordisce, sconforta, lacera e toglie ogni fiducia nell’umanità. Alcune parti sono romanzate, ma ciò che racconta Detroit è successo e ancora – è il chiaro suggerimento del film – succede. La storia è quella di 12th Street riot, la sommossa dell’estate 1967 scatenata dalla comunità black della città, favorita dal contesto di violenza e razzismo made in USA. Per cinque calde giornate la rivolta infiammò – letteralmente – le strade di Detroit. Alla polizia cittadina venne affiancata la polizia statale e la National Guard, e nessuno era avaro di proiettili. Alla fine i morti furono quarantatré, i feriti millecentottantanove, i danni materiali oltre i quaranta milioni. Niente male per il baluardo occidentale della democrazia.

Nella prima parte del film viene scelto un approccio distante, inquadrando la situazione con largo impiego di materiali giornalistici originali e seguendo punti di vista di diversi personaggi. Nella seconda questi ultimi convergono all’Algiers Motel, dove furono pestati e uccisi tre civili, tutti e tre ragazzi, mentre altri nove – due donne bianche e sette uomini neri – furono picchiati, umiliati e in generale spaventati a morte da polizia e altri comparti. Lo stile della Bigelow è realistico, i carnefici impuniti, i lividi e le botte sono credibili e il sudore freddo lo senti nelle narici.
Nel cast del film ci sono un manipolo di bravissimi giovani attori che rendono il tutto ancora più vivido. John Boyega (il Fynn di Star Wars) è una guardia giurata, ragazzone un po’ tonto che si rende conto che qualcosa non va ma non fa nulla per impedirlo. Will Poulter è un cattivissimo poliziotto alt-right. Algee Smith è un aspirante cantante, che trova nella sua angelica voce una via di fuga dall’impotenza in cui la società lo ha lasciato. John Krasinski interpreta un altro poliziotto adeguatamente razzista, ma di più odia le donne che vanno con i neri perché è evidente che soffre di una certa invidia.

La regista Kathryn Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal sono riusciti a creare con accuratezza il clima di Detroit: polizia violenta, neri arrabbiati, saccheggi, ma anche luci, ambienti, musica e colori sono tutti al posto giusto. In pochi secondi sei là, dall’altra parte dell’Atlantico e cinquant’anni addietro.
Insomma, dicevo, esci dalla sala che riesci solo pensare che tutto questo succede ancora, e la release americana del film in occasione dei cinquant’anni della tragedia non fa che rimarcare il concetto. Poi ci pensi un attimo e ti accorgi che i personaggi sono pescati alla fiera dello stereotipo, che non c’è il punto di vista di una donna nera, che fra regista, sceneggiatore e produttori non c’è un’oncia di sangue nero che possa portare una certa profondità alle implicazioni e al dolore della vicenda, e che i bianchi sono buoni e son cattivi, i neri sono tutti vittime o pazzi furiosi.
Ma sai che c’è? La mia carta d’identità dice maschio, bianco e italiano, la Bigelow è maestra della tensione e il film lo promuovo lo stesso. Guerrilla Time in USA!