Spesso si ironizza sul fatto che Matt Groening possa avere una sorta di sfera di cristallo o essere un indovino per via delle tante previsioni, straordinariamente azzeccate, che è riuscito a inserire nei Simpson. Proprio i Simpson sono stati i primi a prevedere, in tempi veramente non sospetti, la presidenza di Donald Trump, così come l’acquisto della 20th Century Fox da parte di Disney, l’avvento degli smartwatch e persino gli sguardi di fuoco rivolti da Greta Thunberg allo stesso ex presidente degli Stati Uniti Trump. You Tube è pieno di video che analizzano nel dettaglio tutte le previsioni della celeberrima serie che si sono poi incredibilmente avverate. Nessuno però cita mai (e del resto finora non ce ne sarebbe stato motivo) l’episodio 17 della ventiduesima stagione. In questa puntata, mentre Homer e Bart cercano di migliorare il loro rapporto padre figlio, Marge e Lisa trascorrono del tempo insieme, guardando i “quattro film di cavalli più tristi” che la donna sia riuscita a trovare. Talmente tristi che Marge non riesce nemmeno a pronunciare il titolo dell’ultimo e si limita a mostrarlo a Lisa, che scoppia improvvisamente in lacrime.
Ecco, mi piace pensare che questo quarto film sui cavalli sia l’ennesima predizione realizzata dei Simpson, che Matt Groening in realtà ci stesse prefigurando Black Beauty Autobiografia di un cavallo, questo film originale prodotto da Disney Plus, adattamento del romanzo omonimo di Anna Sewell, datato 1877. Un film sui cavalli dunque, mediamente triste come la gran parte dei film sui cavalli, con un cast decisamente d’eccezione che contava su Meckenzie Foy (la Renesmee Cullen dei due The Twilight Saga: Breaking Dawn) nel ruolo della protagonista e Kate Winslet a prestare la voce originale al cavallo Beauty, il tutto con la regia di Ashley Avis, nota per il suo thriller psicologico del 2016 Desert. Ma perché Black Beauty potrebbe aver suscitato le lacrime della nostra Lisa Simpson? Andiamo a scoprirlo insieme.
Black Beauty: una (scontata) serie di sfortunati eventi
Beauty è un bellissimo esemplare di Mustang dal manto nero come la pece, con una sola macchia bianca sulla fronte, che vive con il suo branco nelle sconfinate praterie degli Stati Uniti. Un giorno però, degli uomini riescono a catturare quasi tutto il branco, e Beauty viene divisa dalla madre. Poco prima che venga allontanata in quanto “cavallo problematico”, John Manly la salva e la porta alle scuderie Birtwick. Qui Beauty farà la conoscenza di Jo Green, la nipote di John, che ha da poco perso i genitori in un incidente d’auto. Tra le due nascerà un’insolita e profonda amicizia, che le spingerà a resistere sperando di potersi rincontrare anche quando il destino sembrerà volerle dividere per sempre.
La trama di Black Beauty è una lunga successione, decisamente prevedibile e telefonata, di sfortunati eventi e difficoltà superate, condita da un rapporto d’amiciza che vuole essere dolce e toccante, finendo però per risultare soltanto stucchevole e melenso, e da un atteggiamento di resilienza cieca (soprattutto da parte del cavallo Beauty) che alla lunga finisce quasi per stancare. Un ulteriore problema è che, pur volendo essere un adattamento moderno del romanzo della Sewell, Black Beauty non riesce mai davvero a scrollarsi di dosso una sorta di patina di anacronismo e d’antichità che rendono tutto il complesso poco credibile, ammesso e non concesso che la nostra sospensione dell’incredulità ci permetta di credere che un solo cavallo possa essere utilizzato prima come animale da competizione nel dressage, poi come cavallo di soccorso, poi come bestia da tiro e infine per tirare le carrozze a Central Park.
In una trama che sembra essere un misto tra Spirit (mamma perdonami per questo paragone) e una vecchia pubblicità della Vidal, e che non sembra essere diversa da qualsiasi altro film con protagonista una triste adolescente e un cavallo riottoso che potreste vedere in un uggioso sabato pomeriggio qualunque su Italia 1, l’unico aspetto che veramente riesce a cogliere il segno di Black Beauty è la morale animalistica, con la narrazione in prima persona che ci spinge (e ci costringe) a guardare alla storia dal punto di vista del cavallo, a condividere i suoi sentimenti e a capire che non stiamo parlando di una bestia senz’anima. Insomma, nel complesso una trama molto poco impegnata, semplice, con tanto di catarsi e lieto fine a conclusione della vicenda. La trama di un film vendibile e adolescenziale, dalle poche pretese.
Traumi e sentimenti (ma fuori scena)
Tutta la storia di Black Beauty è basata sul semplice concetto della perdita e dell’essere sradicati dalla propria realtà: Beauty e Jo hanno entrambe perso i genitori, anche se in modo diverso, ed entrambe sentono, almeno all’inizio, che le scuderie Birtwick non sono il loro luogo, che non è lì che dovrebbero stare. Sarà solo nell’amicizia e nel rispetto, nel riconoscersi ognuna nel dolore dell’altra, che le due troveranno la salvezza, e inizieranno a capire che la loro unica casa sarà dove è l’altra. Ma dopo una quarantina di minuti questo rapporto è già raggiunto e sublimato, il film potrebbe tranquillamente finire lì, non c’è nient’altro da dire. Tutto il resto delle disavventure, esageratamente standard per un film del genere (dalle difficoltà economiche delle scuderie, all’incendio delle stalle) non aggiungono e non tolgono niente a questo rapporto.
A far notare ancora di più la banalità e la semplicità esagerata della trama concorrono dei personaggi piatti e stereotipati fino all’inverosimile. Al di là di Jo (l’unica che viene approfondita, seppur in modo minimo), con il suo senso d’abbandono e di essere fuori posto, lo zio John è il classico mentore saggio e impressionato dalle capacità della nipote, che non vede l’ora di trasmetterle ciò che sa, mentre tutto il resto del cast di contorno recita delle macchiette che i film Disney ci hanno insegnato a conoscere fin da bambini: George Winthorpe è il classico principe azzurro tutto qualità, mentre sua sorella Georgina e sua madre non sono altro che la riproposizione delle sorellastre e della matrigna di Cenerentola, in salsa alta società snob del 2020. Gli altri personaggi che popolano il film non sembrano nemmeno avere nemmeno il diritto alla caratterizzazione e si dividono sostanzialmente in buoni e gentili e cattivi e senza scrupoli.
Dal momento che il protagonista del film è un cavallo non ci si poteva assolutamente aspettare una prestazione da Oscar e, nonostante una buona Nicoletta Romanoff al doppiaggio italiano, i soliloqui di Beauty non sono mai struggenti o interessanti. Va detto però che anche il resto del cast non prova molto ad alzare l’asticella. Mackenzie Foy sta evidentemente imboccando la strada di Kirsten Stewart, anche se le riescono ancora tre espressioni diverse, mentre per uno Ian Glen senza infamia e senza lode non stiamo certamente parlando della miglior prestazione della carriera. Peccato perché magari un’interpretazione più sentita avrebbe potuto innalzare un po’ questo film.
Una natura stupenda
Il vero punto di forza del film sta, in realtà, nella sua protagonista. Il cavallo scelto per interpretare Black Beauty è di una bellezza sconvolgente, maestoso e impetuoso. Le numerose scene che si concentrano sulla fluidità dei suoi movimenti, con uno slo-mo mai troppo eccessivo, sono veramente pregevoli e bellissime. Insomma, come i protagonisti continuano a ripetere in continuazione, il nome, Beauty, le si addice perfettamente. Anche le ambientazioni sono molto suggestive, con panoramiche sulle sconfinate praterie dove i Mustang cavalcano liberi o quelle della costa, con il faro in lontananza e le onde che si infrangono sugli scogli. Persino le scene cittadine sono pervase da un accenno di magia, come nel caso di uno straordinario Central Park coperto di neve.
A livello visivo insomma, il film è bello e intenso, accompagnato da una colonna sonora sempre azzeccata (un comparto, del resto, in cui Disney sbaglia raramente). A livello tecnico si tratta davvero di un’opera ineccepibile, che riesce a trasmettere emozioni e ammirazione. Immagini potenti dunque, ma mai sfruttate quanto potrebbero, lasciate da sole a tentare di colpire il pubblico, mentre la storia manca di coinvolgerlo o di appassionarlo.
Questo e soltanto questo è Black Beauty. Un film che racconta una storia talmente tanto scontata da risultare prevedibile fin dal primo minuto, senza profondità, senza coinvolgimento, con un messaggio ripetuto all’eccesso: l’amicizia è l’unica cosa in grado di salvarci. Un film adolescente per un pubblico di adolescenti, che nonostante il gran cast e le stupende ambientazioni non riesce a salvarsi dalla spada di Damocle di una trama trita e ritrita, forse realizzata e recitata tecnicamente meglio di altre, ma pur sempre uguale a quella di tanti altri film sullo stesso tema. Un film con un happy end telefonatissimo, pieno di buoni sentimenti e con tanti personaggi che non sono altro che maschere. Un film per ragazzi a cui piacciono i cavalli e che possono sciogliersi davanti a qualche sentimento a buon mercato. Probabilmente, in fondo, all’inizio mi sbagliavo. Non può certo essere Black Beauty quel film sui cavalli così triste da far scoppiare a piangere Lisa Simpson.