Sony e Columbia Pictures ci provano di nuovo, schierando in campo un film d’alto profilo e dallo spirito adrenalinico che potrebbe trasformarsi in un blockbuster immediato, Bullet Train. La pellicola mostra effettivamente tutti i requisiti per sbancare al botteghino, tuttavia la qualità filmica del prodotto è tutt’altro che stabile, anzi rasenta il deragliamento nell’inscenare una pantomima fatta di buone idee, attori stanchi e tematiche contrastanti. In altre parole, non stupitevi se non vedrete questo lungometraggio in cima ai concorsi d’arte cinematografica.
Bullet Train, assassini di tutto il mondo si riuniscono
Giappone, in una stanza d’ospedale, un padre disperato (Andrew Koji) veglia sul giovane figlio in coma. Qualcuno ha lanciato il ragazzino giù da un palazzo, apparentemente senza motivo. La situazione, già di per sé cupa, si addensa quando il patriarca della famiglia (Hiroyuki Sanada) rimarca al genitore di aver fallito nel proteggere la propria prole. La camera trasuda frustrazione, senso di impotenza e un profondo e cocente desiderio di vendetta. Cambio scena. Un entusiasta mercenario statunitense noto come Ladybug (Brad Pitt) calca le strade di Tokyo definendo con il proprio agente gli estremi della semplice missione che gli si pone innanzi: recuperare una valigetta da un treno ad alta velocità, i cosiddetti “bullet train” che sostano nelle varie stazioni appena 60 secondi.
Detta valigetta è però parte di un incarico assegnato a due sicari, i fratelli inglesi Tangerine (Aaron Taylor-Johnson) e Lemon (Brian Tyree Henry), i quali la devono riportare al boss malavitoso russo noto come La Morte Bianca. Nel frattempo, un indizio misterioso conduce il padre nipponico sul convoglio con la promessa di poter incontrare la causa del suo male, una giovane e letale studentessa britannica (Joey King). Come se la situazione non fosse già abbastanza intricata, per vie traverse si presentano sul posto anche il violento sicario messicano noto come Il Lupo (Benito A. Martínez Ocasio/Bad Bunny) e un misterioso killer che trucida le proprie vittime con un potentissimo veleno. Il destino, le macchinazioni dell’intelletto umano e la semplice sfortuna si sono dunque assicurate che i vagoni si trasformino in un insolito luogo di battaglia in cui ogni fazione è condannata a vivere una notte tormentata e fatale.
Da John Wick a Bullet Train, tra stunt e trama
Bullet Train nasce come adattamento dell’omonimo libro thriller/umoristico firmato Kōtarō Isaka, tomo noto in Italia come I sette killer dello Shinkansen. Questa traduzione filmica non ha però seguito un percorso agile e lineare, tutt’altro. Inizialmente il progetto era in mano al regista Antoine Fuqua (The Equalizer), il quale lo aveva pensato come film d’azione tout court, quindi la seggiola della direzione è passata a David Leitch (John Wick, Deadpool 2) e il copione è progressivamente mutato in un action comedy leggero e dai toni decisamente più adolescenziali. In tutto questo, la produzione è dunque stata lanciata nel pieno della crisi pandemica e ha dovuto avere a che fare con tutte le complicazioni legate alle varie quarantene.
A onor del vero, la pellicola nasconde bene i problemi in cui è incorsa, tuttavia le molteplici complicazioni hanno comunque inciso sul risultato finale, elemento che si percepisce soprattutto nella gestione del ritmo narrativo. Leitch è nato come stuntman e, più che per la raffinatezza visiva, le sue opere filmiche sono note per la capacità di valorizzare le coreografie di combattimento e le scene dinamiche. Quando Bullet Train si abbandona all’insensatezza delle sue premesse, per esempio quando gli yakuza si sfidano a spadate e colpi di mitraglietta con in sottofondo musicale una cover giapponese di Holding Out For A Hero di Bonnie Tyler, le alchimie stilistiche si sposano per creare attimi di grande intrattenimento, tuttavia questi contesti sono rari, dissipati e non durano che una manciata di secondi. Per il resto si è assoggettati a lunghi momenti di confronto dialettico, cosa che avrebbe potuto funzionare, se non fosse stato per il copione fiacco e privo di brio a firma di Zak Olkewicz (Fear Street Parte 2: 1978). Senza potersi appoggiare a un testo mordace, l’intera esperienza cinematografica si poggia a peso morto sulle spalle del cast, cosa che a sua volta solleva nuove criticità.
Gli alti e bassi di un treno che non si può fermare
Sostenere che Bullet Train sia colmo di celebrità è riduttivo: oltre a quelle che abbiamo già esplicitamente nominato ve ne sono molte altre che abbiamo omesso al fine di preservare ai lettori la sorpresa. Il film è infatti girato con l’intenzione più o meno esplicita di proporre una caccia alla comparsata, così da eccitare e lasciare interdetti gli spettatori. Una scelta che magari funziona bene in un film come Deadpool 2 – ci si ricordi il cameo di Brad Pitt nel film Fox / Marvel – ma che in questo contesto non solo rappresenta una profonda distrazione, ma logora notevolmente le possibilità espressive degli attori chiamati a partecipare, i quali partono dunque da una posizione di svantaggio.
Non sorprende dunque che a emergere per eccellenza siano Taylor-Johnson e Tyree Henry, i quali possono godere sia del “lusso” di vedersi dedicata una parte significativa di girato, sia la fortuna di interpretare due personaggi che interagiscono costantemente tra di loro. Pitt, vero protagonista del lungometraggio, può a sua volta contare sulla spalla narrativa offertagli dalla sua agente, ma in questo caso i risultati sono più che deludenti. Ladybug è descritto come un impiastro scopertosi pacifista che è sempre al centro di mille disavventure, una personalità che il noto attore d’azione fatica a incarnare in maniera coinvolta e coinvolgente, esacerbando le carenze proprie del copione.
Leitch ha incrociato più volte Brad Pitt negli anni in cui faceva da controfigura e i due hanno sviluppato un rapporto umano che è stato uno dei principali motivi che hanno giustificato la partecipazione della celebrità al progetto. Includere il noto attore nelle vesti di protagonista è stata una chiara deficienza nel ramo del casting, tuttavia non bisogna essere ingenui: Pitt è l’elemento più significativo nella composizione della coterie attoriale, il motore che trainerà la gente al cinema, non è quindi da escludere che la sua presenza sia stata indispensabile ai fini puramente mercantili.
Il momento di andare a “Diesel”
Bullet Train non è altresì da cestinare, si fregia di sporadici momenti di sincero divertimento, tuttavia questi sono alternati a scene prive di mordente che smorzano i toni offrendo contenuti seri, ma mal gestiti. Complice la presenza di uno staff molto vario e noto, durante la proiezione ci è capitato addirittura di vagare con la mente verso alcuni loro vecchi film. David Leitch ci ha fatto ripensare al sottovaluto Io sono nessuno, Brad Pitt alla commedia brillante che era Snatch, Taylor-Johnson ci ha rimandati a Kick-Ass, il treno a Snowpiercer, quindi clima e comparsate ci hanno suggerito Cena con delitto, Baby Driver e Kill-Bill. Tutti film autoriali degni di nota e che saranno ricordati negli annali del cinema. Un onore che temiamo non sarà esteso a Bullet Train.
Intrigo, azione, un cast stellare e una dose notevole di comicità: Bullet Train avrebbe tutte le carte in regola per diventare immediatamente il blockbuster dell’estate, tuttavia il risultato finale è dolce-amaro. Sebbene sia in grado di fornire un certo grado di intrattenimento, la pellicola non riesce a definire un proprio focus e non valorizza di conseguenza nessuno degli elementi che la compongono. Bullet Train cade in uno spazio di apatica ambiguità creativa che lascia lo spettatore con la voglia di dedicare il proprio tempo ad altri omologhi del genere action.