La pluralità dei generi delle produzioni videoludiche è andata crescendo nel tempo inesorabilmente, portando con sé le sfaccettature e le sfumature di quel tempo di cui faceva parte. Siamo giunti ad un punto della storia in cui, grazie alla frequente connessione con altre persone garantita da sistemi sempre più moderni e all’avanguardia, si può assistere ad ogni evento, bello o brutto, che ci circonda e in ogni parte del globo. Proprio questo ha dato al videogioco la proprietà dell’evoluzione, cercando sempre di seguire il “momento” e non forzatamente ma anzi, in un modo che possiamo definire naturale. In sostanza, l’arte videoludica è arrivata al punto di potersi esprimere in moltissimi modi e, soprattutto, su tantissime tematiche sociali diverse. Proprio questa naturale espansione però, ha forse portato meno rilevanza ad un discorso prettamente inerente all’individuo, quello che, posto al di fuori di una comunità, è l’essere umano con tutto ciò che gli riguarda: le sue emozioni, le sue memorie e i suoi mostri, senza nulla togliere al punto successivo, che risulta essere di fondamentale importanza, cioè la sua relazione con la comunità mentre egli è contenitore di quanto detto prima. Sono proprio i mostri a farla da padrona ed è lì che Röki, titolo di debutto della Polygon Treehouse, tenta di mettere i puntini sulle i, portando avanti una lotta parallela tra sé stessi e il “sé stessi degli altri”. Aiutare sé stessi per aiutare gli altri. Sconfiggere i propri mostri, per sconfiggere quelli altrui. L’uso del folklore scandinavo, di cui parleremo più in là nella recensione, per raccontare le vicende della protagonista è il tocco in più che un’opera di questo tipo porta e sbandiera con fierezza. Vedrò di analizzarlo al meglio senza privarvi però della scoperta del titolo, evitando di lasciar traccia delle scene importanti e inerenti alla trama principale.
Röki: un adventure-puzzle game
Nasce avventura o nasce puzzle? Trovo sinceramente difficile dare una risposta certa ma, oserei dare una definizione di questo tipo: Röki ha una base profondamente adventure con una massiccia aggiunta di influenze punta e clicca. Non è né uno né l’altro in modo estremo, è il connubio tra le due parti. Per semplificare la spiegazione, credo sia ovvio e al contempo utile andare più nel dettaglio in quello che ci offre la produzione non prima però, di far presente purtroppo che, durante il personale playthrough dell’opera, sono stato uno dei pochi sfortunati ad incappare in un bug che non mi ha permesso di continuare la storia, se non ricominciando tutta l’avventura per una seconda volta e, vi posso garantire, che è piuttosto frustrante in un gioco di questa tipologia e che per di più va avanti a salvataggi automatici molto, molto vicini tra loro.
Può esser definito un adventure game proprio perché, dopo circa la prima ora di gioco, ci si ritrova in quella che può essere definita una macro-zona liberamente esplorabile.
Per liberamente esplorabile s’intende che i vari puzzle sono situati in locazioni completamente diverse tra loro in cui il giocatore è libero di muoversi; difatti dopo un certo punto del gioco sarà possibile “teletrasportarsi” da una zona ad un’altra e questo fa del level design adottato un punto assolutamente a favore: le aree da esplorare sono tutte collegate tra loro, rendendo quindi la navigazione nello spazio meno monotona, più intrigante, diversamente da un punta e clicca classico, ad esempio. Spesso capiterà di dover prendere un oggetto in un posto e doverlo portare dalla parte opposta ma il processo sarà semplificato dall’uso della Via Radicale (tale è chiamato il teletrasporto) il quale risulterà molto comodo, così come un riscontro assolutamente positivo ha il tasto per poter evidenziare chiaramente tutto ciò con cui si può interagire nella sotto-zona in cui ci si trova, rendendo meno frustrante la ricerca di oggetti, interazioni e così via. La libertà del giocatore sta tutta lì: può girare liberamente ed osservare, mentre il lato puzzle game è dato appunto dai numerosissimi indovinelli da svolgere e di difficoltà variabile, difficoltà che delle volte può derivare anche da una superficiale lettura del giocatore ma, in generale, offrirà diversi rompicapi di discreta qualità. Appurate le basi, possiamo vedere il titolo molto più vicino, nel modo di giocarlo, ad un Syberia piuttosto che ad una generica avventura grafica. In generale, il titolo non innova né un genere né l’altro, ma il suo complesso ne giova moltissimo ed in modo molto positivo, unendo due fondamenta in un buon gameplay.
Ottima, per un gioco indie e di questo genere, la longevità che va dalle 6 alle 8 ore, contando di fermarsi per più tempo in alcuni punti o per alcuni indovinelli poco chiari, seppur quest’ ultima possibilità risulta essere piuttosto rara. Pecche negative dell’esperienza però, proprio relativa ad un level design moderno per un titolo di questo tipo, sono le fasi di passaggio tra una zona ed un’altra e le scalate. Avendo molte “sottozone” in una macroarea da esplorare, ogni sotto-zona presenta, ovviamente, un’entrata ed eventuale uscita. Il problema è che le transizioni da un’area ad un’altra sono un po’ troppo lente e, visto il numero di volte che ci si ritrova a passare da parte a parte, può risultare stancante, così come le animazioni di scalata: risultano essere macchinose e pesanti, poiché quando la nostra protagonista inizia una scalata, ecco che si presentano le bande nere che fanno la loro lenta comparsa, per poi vederle sparire (sempre lentamente) alla fine della scalata, finalmente permettendo la ripresa dei comandi del personaggio (e con conseguente sospiro dal sottoscritto). Infine, sicuramente da menzionare è l’uso, esclusivamente nell’ultima ora di gioco, di due personaggi e non più uno, aprendo a nuove sfumature di gameplay con l’interazione di un personaggio che aiuta l’altro (figuratevi la meccanica un po’ come i giochi in cooperativa dove i personaggi sono complementari tra loro, A Way Out ne è un chiaro esempio) con la libertà di passare da un all’altro con la semplice pressione di un tasto.
Un bellissimo inverno scandinavo disegnato a mano
Röki, per quanto concepito da uno studio indie appena formato e quindi, sotto spoglie di titolo di debutto, non manca di una forte caratterizzazione stilistica. Polygon Treehouse ha optato per uno stile grafico di disegno a mano per tutti gli elementi visivi osservabili: dai personaggi, alle lande innevate in primo piano agli edifici con molti dettagli visibili, fino alle montagne che fanno da perenne panorama nella produzione, a rimarcare il territorio nordico. La scelta artistica si collega perfettamente sia al genere di gioco che alla storia raccontata e gli elementi che circondano la narrativa della trama principale, s’intende il concept dei personaggi e delle varie creature presenti. L’art design scelto sembra, per quanto appunto fatto bene, paradossalmente l’unico modo per rappresentare questo titolo, con questa storia, con questo setting.
I colori pastello e la palette scelta rendono tutta l’avventura molto più leggera: non vi sono colori forti, se non quelli dei personaggi principali, i quali sono estranei al mondo in cui entreranno e desta proprio lì l’attenzione, nella differenza: i personaggi, alieni del posto, sono progettati con colori molto più accesi, quasi fuori natura, mentre il paesaggio e le creature che lo vivono sono caratterizzati da sfumature di colore molto delicate, le ombre che si stagliano non sono scure ma accompagnano anzi il bianco candido, per niente freddo, della neve che ricopre il tutto ed è proprio questo il fattore che più mi ha stupito: ovvero il modo in cui Röki presenti un luogo freddo, che il più delle volte viene da molti visto come inospitale e scomodo spesso perché lontano dalla nostra conoscenza, in un modo del tutto diverso, tanto da far sentire il giocatore al sicuro (e non c’è da esser al sicuro nel luogo in cui si addentra il protagonista, almeno questo è quello che pare dalle fasi iniziali del titolo) e forse, anche a casa. Se tale leggerezza nello stile è resa alla perfezione dal disegno a mano e dai colori scelti ad hoc, la colonna sonora avvolge tale nucleo in un’atmosfera unica di pace. Anch’essa, risulta di ottima produzione, accompagnando egregiamente tutta la scelta artistica del titolo con però un’unica nota negativa: le stesse tracce, per quanto ben fatte, possono risultare delle volte poco variegate seguendo sì un tema, ma senza distaccarsi troppo da quest’ultimo, divenendo a volte, più background che parte dell’emozione stessa. Per di più (ma questa è più una personale obiezione che una critica) la OST, per quanto ben fatta, non ricalca minimamente la scena folklorica e il che è un vero peccato perché avrebbe aggiunto sicuramente più personalità al tutto.
Gli effetti in genere, tra ombre ed illuminazione, non risultano essere i punti forti della resa grafica ma questo è dovuto in principio dalla decisione fatta a priori sulla linea artistica da seguire, non spiegando però il divario dei requisiti minimi e raccomandati piuttosto ampio, con questi ultimi eccessivamente alti, dal mio punto di vista. Röki è stato provato su un Intel i5-4670k, 16 GB di RAM e GPU Nvidia GTX 970 4GB.
Röki: quali mostri?
Se fino ad ora non ho osato dir nulla o quasi della trama e delle creature coinvolte, è perché tutto il meglio di Röki è proprio lì e per tale motivo ho voluto lasciarlo come ultimo punto di questa recensione per poterne parlare quasi liberamente, avendo già analizzato il resto precedentemente. Polygon Treehouse ha proposto un contenitore fatto di creature mitologiche del folklore scandinavo, una storia sì semplice, ma efficace e non così scontata nel quale vi è riposto, con estrema attenzione, un messaggio dalle mille sfumature, seppur chiaro per ciascuno di queste. Procederemo con ordine e porrò sempre attenzione nel parlare con la giusta misura per non rovinare la sorpresa nel giocare questo titolo.
Il folklore di ogni comunità è, per farla semplice, una serie di credenze, tradizioni e storie. Tali elementi, da tempo, vengono usati per raccontare vicende che, a loro volta, passano un messaggio relativo a quella comunità. I comportamenti, per quanto si voglia dire, vengono spesso dettati da questi “dogmi” seppur, ormai, in un modo quasi del tutto passivo, tanto passivo da far sembrare i nostri modi di fare e vedere (e con ciò intendo anche come “noi” vediamo “gli altri”) assolutamente naturali. Va da sé che, per ogni comunità con i propri contenuti folklorici, vi sia un modo diverso di vedere le cose ma in tutto questo discorso vi è un punto che converge per ogni gruppo sociale o etnico. Vi siete mai chiesti il perché della parola “mostro” stia sempre a significare una sola e imprescindibile cosa?
Röki punta a prendere tale vocabolo con un significato che potremmo definire primordiale (per quanto in realtà, l’etimologia della parola indichi, prima di un abominio, qualcosa di speciale, divino) e lo pone sottoforma di domanda: quali mostri? O meglio, potremmo ancora chiederci “Chi o cosa sono, davvero, i mostri?”. É doveroso, a questo punto, l’analisi precisa del setting e della storia.
La protagonista, Tove, vive con suo fratello e suo padre in una piccola casa di montagna, immersa tra le foreste scandinave cui fanno capolino le vette lontane ed innevate sempre visibili nel titolo. Suo fratello minore, Lars, lo si conoscerà principalmente per la voglia di giocare e la grande fantasia nel vedere i “mostri” della mitologia del luogo mentre, suo padre Henrik, si riscalda nello chalet davanti ad un camino, mezzo appisolato nei ricordi di una tragica mancanza. Nei primi minuti si può già intuire che, tale famiglia, manca appunto di una madre e che probabilmente è scomparsa in seguito ad un qualche incidente. Tutto procede come al solito nella vita dei tre ma questo andrà avanti ancora per poco tempo. Improvvisamente, dopo una serie di episodi, ci si ritroverà in un mondo non appartenente agli umani, ma alle creature fantastiche del folklore nordico. Lars è sparito, rapito da un mostro; Henrik, il papà, rimane vittima della furia dello stesso mostro colpevole del rapimento del piccolo e Tove invece, con gran coraggio, parte per salvare suo fratello minore, dopo aver lasciato la propria casa ormai distrutta.
Le creature che abitano il nuovo mondo, alieno per gli umani, sono delle più svariate, ognuna con la propria personalità che rispecchia le antiche storie tramandate di generazione in generazione. Tra queste, vi sono i Guardiani della Foresta, figure sempre appartenenti alla simbologia scandinava. Essi sono i principali elementi che mantengono l’ordine del luogo sacro, l’equilibrio naturale del tutto. Sono identificati per mezzo di nomi che indicano la razza dei giganti: Jötunbjörn l’orso, Jötunúlfur il lupo, Jötunhjort il cervo e Jötunravn il corvo. Secondo la leggenda narrata nell’opera, quest’ultima si innamora di un essere umano e, lasciando la protezione della Foresta ai suoi tre fratelli, prende fattezze umane (col nome di Rörka) per vivere una vita d’amore. I due generano un figlio, Röki, ma costui si rivela essere un mostro: mezzo uomo e mezza creatura. I suoi fratelli, per tale abominio creato, decidono di esiliare lei e la sua prole ad Utengard, un piano inferiore nel quale l’ex-Guardiano trama proprio contro i suoi stessi fratelli per dare a suo figlio Röki un futuro e un mondo in cui essere accettato.
Senza scendere fin troppo nei dettagli, è chiaro che le due storie andranno poi ad incontrarsi in un punto ben preciso e ciò sarà chiaro già dalla prima ora di gioco o poco più. Ciò che però va davvero analizzato, è come la Polygon Treehouse abbia amalgamato alla perfezione gli elementi culturali che è possibile vedere nelle numerose creature che si troveranno durante il corso dell’avventura (per citarne alcune, il Fossegrim o i troll ad esempio) con il messaggio principe dell’opera: il mostro. Tove, lungo la sua ricerca per il fratellino, combatterà i suoi di mostri, quelli che porta dentro di sé da quando era piccola e dai quali è sempre fuggita ma, facendo questo, aiuterà la Foresta a tornare prospera così come, e qui la parte che ho preferito nel significato dell’opera portato avanti magistralmente, aiutare a vedere con occhi diversi i “mostri” altrui, quelli che da un certo punto in poi, saranno accettati e non più visti come mostri, con quell’ appellativo sempre usato erroneamente. Tove troverà la strada verso la redenzione, riuscirà a superare e abbattere i propri sensi di colpa dovuti ad un episodio in particolare e, così facendo, mostrerà la propria forza alle creature, divine e non, spronandole a migliorare e a capire ma, soprattutto, aiutare. Il messaggio trasmesso è potente e chiaro: lottando i propri “mostri”, quelli insiti in ognuno di noi, aiutiamo anche chi ci sta attorno, anche chi disprezza e odia, facendo loro notare che quella parola è sinonimo di isolamento e solitudine, sia per chi la usa che a chi viene rivolta.
Tove, lottando, riceverà sempre più l’aiuto della Foresta e delle creature che la abitano, divenendo il faro portatore di speranza anche per chi disprezza gli umani, ovvero il “diverso”. Colui che è visto come un mostro è visto come “diverso” e il personaggio Röki, nella storia, è proprio il “diverso” per il quale tutto avviene. Molto verrà alla luce durante tutta l’avventura che la Polygon Treehouse ha ben costruito, stando attenta ad ogni tassello e posizionandolo nel giusto posto.
Röki è il titolo di debutto della Polygon Treehouse e si dimostra essere non solo un ottimo debutto, ma anche una luce a cui gli indie del genere dovrebbero far riferimento. Il titolo dimostra come non serva un immenso budget per sviluppare qualcosa che abbia una propria personalità, che racconti una propria storia e dice come non serva necessariamente la grafica mozzafiato, quanto in realtà degli accostamenti perfetti nella scelta stilistica. Seppur non con un gameplay completamente innovativo e con qualche elemento da migliorare ma portando comunque una ventata d’aria fresca nei puzzle game, Röki permette di vivere appieno un’avventura di tutto rispetto con un messaggio, anche se non del tutto originale ma davvero sempre utile, avvolto in un’atmosfera unica e narrato in un modo molto originale che contemporaneamente appassiona e avvicina il giocatore al folklore scandinavo ad una cultura diversa dalla propria, cosa al giorno d’oggi che risulta molto utile ai fini di una crescita delle e tra le comunità. Il mondo videoludico si dimostra ancora una volta, grazie a titoli come questo, di potersi avvicinare molto più di quanto si pensi alle realtà che ci circondano, dandoci un nuovo punto di vista di volta in volta nell’affrontare la vita in sé stessi e con gli altri.