Da fin troppo tempo sentiamo oramai parlare di NFT. Non è un caso: la pandemia da COVID-19 e il cambio di nome di Facebook, diventato Meta a livello aziendale ha letteralmente fatto esplodere una serie di trend incredibili, tra cui quello dei token non fungibili. Ed è normale vedersi spiazzati, se non si è mai mastico niente del genere prima, soprattutto considerando quanto sia complesso provare ad avvicinarsi per chi non ha mai avuto un interesse non solo verso le nuove tecnologie, ma magari sia rimasto ancorato a modelli di distribuzioni e di acquisto decisamente più vecchi. Quale occasione migliore dunque di un editoriale per provare a fare chiarezza e cercare di spiegare al meglio, in maniera semplice, questo argomento? Nessuno. Dunque armatevi pazienza: vi stiamo guidando in un lungo viaggio pieno di termini nuovi e progetti che a prima vista potrebbero non essere chiarissimi. Pronti? Iniziamo.
NFT: ma di cosa stiamo parlando?
Un NFT è un token non fungibile, ovvero un oggetto che non può essere riprodotto da nessuna parte. In tanti pensano che questo mercato sia destinato solamente all’arte e viene paragonato a semplici formati di immagine, come JPG/JPEG/GIF/PNG. Niente di più sbagliato. Di fatto, un token non fungibile è ben altro che un semplice formato e sarà probabilmente il futuro con cui dovremo confrontarci in determinati ambiti.
L’acquisto di un token non fungibile, ma anche la sua creazione, rappresenta infatti il copyright. Quando acquisto un token non fungibile non otteniamo un jpg, ma otteniamo la proprietà intellettuale su un determinato oggetto. Un certificato, che ci garantisce di aver acquisito un’opera originale e che possiamo anche rivendere, senza pericolo di incappare sui falsi. Ma questo non si applica, ovviamente, solamente ai beni digitali. Pensiamo ad esempio di voler acquistare un’opera d’arte fisica, che esiste in un mercato reale: chi ci può garantire che quel quadro sia originale? Oppure, ancora più semplice, come facciamo ad acquistare un orologio di marca, magari un Rolex, assicurandoci la sua autenticità? Qui intervengono proprio gli NFT: per via della loro natura tecnica (ci arriveremo) un token non fungibile non può essere falsificato. Quindi, sì, in questo caso avremmo tra le mani un Rolex, un quadro o un oggetto d’arredamento autentico e ne saremmo certi fin da subito.
Come si creano gli NFT? Un processo complesso
Entrare nei dettagli della creazione dei token non fungibili richiederebbe troppo tempo. E’ utile però sapere che tipo di strumenti ci sono dietro. Uno di questi (anzi, il più importante e fondamentale) è la blockchain. Una blockchain non è altro che un registro digitale e aperto, dove si memorizzano dei dati. E un NFT viene proprio registrato sulla blockchain, fornendo tutte quante le informazioni essenziali in merito. Facciamo un passo indietro e torniamo al Rolex: la società che crea quel tipo di modello decide di crearne un NFT: quel token non fungibile viene creato sulla blockchain e viene consegnato a chi comprerà quel particolare modello. Ricordate la falsificazione e i mercato nero degli orologi dei primi anni 2000? Sarebbe praticamente impossibile a questo punto provare anche solo ad immettere un orologio falso sul mercato, visto che si richiederebbe l’NFT come prova, che come abbiamo visto, per via della blockchain, non può essere falsificato.
Il mercato dell’arte cambia
I progetti NFT stanno cominciando a diventare sempre più comuni. Resta però l’arte il suo maggior fruitore, per via di un mercato sempre più importante e ricco di veri imprenditori o semplici appassionati. Konami, ad esempio, ha lanciato gli NFT dedicati a Castlevania e sì, già sentiamo le critiche, ma pensiamoci: è collezionismo digitale, dove per la prima volta in assoluto abbiamo la certezza di possedere una limited edition, cosa non possibile in un mercato tradizionale. Altri progetti interessati riguardano invece gli NFT di LevlUp: l’azienda produttrice di energy drink dedicati ai videogiocatori ha lanciato una selezione di 50 token non fungibili dedicati ai suoi drink, che saranno parte anche dei giochi del metaverso. Chi compra uno di quei barattoli potrà utilizzarlo, in futuro, in spazi dedicati sociali in 3D, come ad esempio l’oramai ben sperimentato Second Life.
Il modello “gioca – guadagna”
Ci sono poi i giochi play-to-earn, che hanno come concetto quello di far guadagnare ai giocatori. Alcuni esempi di successo sono Sorare, fantacalcio che unisce il gioco creato in Italia negli anni ’80 con le meccaniche di FUT: compravendita di giocatori, drop di calciatori limitati (magari 10 card di Lewandoski e 8 di Cristiano Ronaldo) e un marketplace sempre aperto, che consente trattative ogni giorno. Si vendono carte, si comprano carte e si vincono premi partecipando alle competizioni. Chiaramente, come tutte le nuove tecnologie, anche questa è soggetta a progetti bolla, che rischiano di ovviamente di sgonfiarsi. Il capitale, d’altronde, è sempre a rischio e non è uno scherzo: i giochi play-to-earn rappresentano ovviamente un rischio, considerando che si tratta di un investimento.