Ogni settimana parliamo di un film tratto da un videogame. Raccontiamo passioni, sfide e curiosità su un genere che, fra alti e bassi, ha segnato l’inizio del nuovo millennio.
Il primo film di successo tratto da un videogioco. Nel 2001 l’icona del gaming, grazie a Tomb Raider, era donna. Cinque anni addietro, con il lancio della prima gloriosa console PlayStation, Lara Croft aveva consacrato l’ingresso di Sony nel difficile ma potenzialmente lucroso mercato videoludico, allora sotto i domini Nintendo e Sega. Ma un porcospino blu in live-action poteva essere solo una formidabile spalla comica, e a proposito di Super Mario…chiedete a Bob Hoskins cosa ne pensa. Insomma, il palcoscenico pareva aspettare solo Lara. C’era però un problema: come può una personalità a due dimensioni guadagnarne una terza? Le uniche pellicole tratte da un videogame che non si fossero rivelate un disastro erano due: Pokémon: Il FIlm e Mortal Kombat. Ma uno era un cartone animato trascinato da acclamazione planetaria che coinvolgeva tutte le fasce d’età; l’altro un film a budget medio-basso. Lara Croft: Tomb Raider sarebbe costato 5 volte tanto. E’ vero, Lara era praticamente una pop-star, ma Paramount Pictures non poteva ignorare delle difficoltà intrinseche alla IP. Primo: la fonte non era un libro o un fumetto, e 16 anni fa il videogioco non aveva uno status culturale ben definito. La rivoluzione PlayStation era ancora in corso, e le condizioni che hanno reso possibile, oggi, un film come Assassin’s Creed dovevano ancora arrivare. Secondo: la protagonista, appunto, era donna e il Cinema, per quanto si beasse della sua maturità artistica, era ben più maschilista del suo fratello minore il Videogame. Il re dell’archeologia, tanto per dirne una, era Indiana Jones, che aveva il ghigno beffardo di un tale che di nome faceva Harrison Ford. Spodestarlo, o anche solo provarci, era una pazza, pazza idea.

Ma prima di affrontare tutto ciò bisognava trovare i soldi. Il budget dichiarato ammonterebbe a 115 milioni di dollari, ma la realtà è che Paramount ne spese solo 7. E il crowdfunding non c’entra nulla. La maggior parte dei finanziamenti provenirono dalle licenze per la distribuzione in 6 paesi dove Tomb Raider era top-seller: Giappone, Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna e Italia. Fino a quel momento non era pronta nemmeno la sceneggiatura, e già lo studio aveva messo da parte 65 milioni. Il resto venne ottenuto sfruttando le agevolazioni fiscali tedesche e inglesi. Ad esempio Paramount, grazie a un cavillo, fece 10 milioni solo vendendo e ricomprando i diritti da Tele-München Gruppe, una compagnia di investitori. Un gioco da ragazzi, per un avvocato californiano. Il copione, invece, fu una bella magagna, e nel prodotto finito emerge tutta l’incertezza causata da continue riscritture. D’altronde adattare un videogioco non è mai stato uno scherzo per nessuno. La prima stesura, datata 1998, si soffermava sull’adolescenza di Lara, e la quest principale sarebbe stata la ricerca di El Dorado. Il testo era inconcludente, pieno di dialoghi e privo del sovrannaturale che aveva sempre caratterizzato il franchise. Per fortuna non vide mai la luce. Altrimenti ci saremmo persi robottoni, micidiali statue semoventi e l’artefatto che controlla il tempo!

[quotedx]Nel prodotto finale emerge tutta l’incertezza causata da continue riscritture. [/quotedx] Lo script finale, quello approvato da Paramount, fu redatto da 5 autori, fra cui lo stesso regista Simon West. E fu proprio quello la causa principale per cui Lara Croft: Tomb Raider venne massacrato dalla critica. Ingiustamente. Perché quella sceneggiatura incoerente, piena di frasi fatte e strade narrative interrotte era solo un pretesto per mettere in scena uno dei migliori “popcorn movie” di quegli anni. E questo non lo dico io, ma il grande critico statunitense Roger Ebert, il quale con un velo d’ironia disse: “Lara Croft: Tomb Raider eleva l’eccentrico a forma d’arte. E’ un film così ridicolo, ma allo stesso tempo così splendido da guardare, che solo un cafone può trovare difetti“. Solo su un punto il consenso fu unanime, e in fondo nel 2001 non c’era altra attrice al di fuori di lei, Angelina Jolie. Una meno brava sarebbe rimasta schiacciata da una sceneggiatura così svilente. Lei invece s’impegna al massimo, si sottopone ad allenamenti massacranti, e recitando sfoggerà persino l’accento inglese. E ancora salta, schiva, spara, volteggia, si fa la doccia (!). La sua performance è incastonata in quella sequenza di bungee acrobatico, effettuata senza stunt. Angelina è il vero effetto speciale del film. E non perché dia profondità al personaggio. Quello è impossibile. Conferisce piuttosto un secondo livello di lettura nel quale rinveniamo la magica conversione di videogiocatori attivi in spettatori passivi. E’ come se ci rassicurasse dicendo: “Eccomi, sono sempre io”. In ogni suo ammiccamento, in ogni suo gesto c’è la consapevolezza di non essere sola.
Da un punto di vista prettamente cinematografico è una specie di rivoluzione. Ma troppo avanti per i tempi. Il film fu un successo al botteghino, rivelandosi come il maggior incasso per una pellicola con protagonista femminile ed è ancora oggi l’adattamento da un videogioco più remunerativo. Il sequel ricevette critiche migliori, ma meno soldi, e Jolie abbandonò il ruolo. Fra un anno esatto, il franchise tornerà al cinema. Se, però, il film con Alicia Vikander può permettersi di omettere “Lara Croft” dal titolo, il merito è di quel film che, cinque lustri fa, trasformò una sexy icona virtuale in una donna in carne, ossa e sudore.