Assassin’s Creed Rogue – Recensione

Con l’arrivo della (più o meno) nuova generazione di console, era solo questione di tempo prima che i franchise più grossi del pianeta levassero le tende dalle ormai vetuste offerte di Microsoft e Sony, ma la verità è che i publisher ci stanno ancora andando con i piedi di piombo. La cross-gen impera, anche se almeno si sta iniziando a verificare un processo di esternalizzazione, con le versioni “minori” affidate a team esterni. Ubisoft, per il suo Assassin’s Creed, ha voluto fare di meglio, realizzando un titolo completamente a sé stante per Xbox 360 e PS3, che oltretutto andasse a chiudere la cosiddetta trilogia americana, iniziata con il terzo capitolo della saga, proseguita con Black Flag e ora in dirittura d’arrivo con questo Rogue. Inoltre, nonostante l’hype alle stelle per Unity, anche quest’ultimo sforzo old-gen sembrava meritevole di attenzione. Il fatto che per le prima volta fosse possibile indossare i panni di un Templare invece del solito Assassino, rappresentava già di per sé un punto a suo favore.

Impossibile negarlo, l’idea di una storia raccontata attraverso le gesta di un antagonista sembrava davvero meritevole di attenzione. Non tutto però è andato come previsto, e quel che pareva essere un prodotto potenzialmente affascinante, si è rivelato in realtà ben più piatto dei sui illustri predecessori. Prima però di entrare nel dettaglio critico, facciamo il punto della situazione. Rogue si pone come un anello di congiunzione fra AC3 e Unity, e gli appassionanti saranno felici di rivedere facce più meno note, come Achille (il mentore di Connor), Adewale (il quasi braccio destro di Edward Kenway) e Haytan Kenway, il ben noto maestro templare, padre di Connor e figlio di Edward. Se tutto questo turbinio di nomi non vi dice nulla o vi sta creando solo un gran mal di testa, non preoccupatevi, non siete i soli. L’intreccio narrativo è ormai al limite del confusionario, anche per un appassionato della serie, e in più di un’occasione ci si domanda se tutta la coerenza temporale è stata rispettata, per non parlare dell’eccessiva età di alcuni personaggi, difficile da giustificare in un contesto storico dove arrivare a 40 anni era già un record.
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Che il padre della comprensione ci guidi

Ma del resto stiamo parlando di un gioco dove due fazioni lottano senza sosta da millenni, sullo sfondo di divinità elleniche e con manufatti in grado di controllare la volontà di milioni d’individui. Insomma, non stiamo a guardare il pelo nell’uovo. Quel che ci interessa è conoscere il nuovo protagonista, un ex-Assassino pentito, che stufo dell’agire della sua confraternita, gli si rivolterà contro abbracciando così la causa dei Templari. Un incipit davvero forte, ma che in realtà viene “gettato via” durante la narrazione: il nostro Shay si è rivelato uno dei personaggi più piatti di sempre, tanto che è piuttosto difficile provare una qualche forma di empatia nei suoi confronti. L’approfondimento e la caratterizzazione, da sempre punti di forza della saga, non trovano molto spazio in Rogue, che del resto si presenta con una campagna principale esauribile nel giro di 8/10 ore, decisamente sotto la media della serie. Gli eventi vengono spesso lanciati senza troppa convinzione, e non c’è davvero nulla che possa sorprendere il giocatore più scafato. Lo Shay in versione Templare non fa cose molto diverse da quelle dei suoi ex-compagni, e si ha quasi la sensazione che Ubisoft abbia sprecato un’occasione d’oro, potendo per la prima volta proporre un uomo dalla morale alterata, più feroce e determinato dei vari Ezio, Connor e via discorrendo.

[quotedx]il nostro Shay Cormac purtroppo si è rivelato uno dei personaggi più piatti di sempre[/quotedx]
Purtroppo questo appiattimento si riflette su buona parte delle meccaniche di gioco, dove ritroviamo praticamente tutti gli elementi più noti, riproposti con la medesima funzione. I combattimenti avvengono con la stessa cadenza di sempre (di rado impegnativi), con Shay in grado di utilizzare una vasta pletora di armi comprendenti l’immancabile lama celata, spade (niente asce giganti o martelloni da guerra), dardi di varia natura e bombe fumogene. L’unica novità bellica è rappresentata da una sorta di lancia granate portatile, invero scarsamente utile, se non in qualche rara occasione. Il gameplay è arricchito in parte da una peculiarità ereditata dalla modalità multiplayer dei precedenti Assassin’s Creed: per scovare gli Assassini occorre affidarsi all’Occhio dell’Aquila, laddove un sinistro sussurro ci comunicherà la presenza di un nemico nascosto da qualche parte. Grazie a un indicatore circolare sarà quindi possibile intuire la posizione degli Assassini, permettendoci di stanarli e ucciderli. In caso contrario, è molto probabile ritrovarsi infilzati da una lama celata. Nulla di particolarmente rivoluzionario, ma almeno aggiunge un po’ di pepe alle missioni.
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Repetita iuvant (più o meno)

Missioni, dicevamo. Ecco, anche in questo frangente Rogue non fa altro che ripetere a pappagallo quanto visto in passato, anzi, per certi versi gli sviluppatori di Ubisoft Sofia hanno ridotto all’osso la varietà. In pratica, non c’è molto più dell’individuare qualche soggetto e farlo fuori. Ci sono un po’ di inseguimenti, una manciata di battaglie navali e poco altro. Le battaglie, del resto, si presentano identiche a quelle di Black Flag, con tanto di abbordaggio e combattimento sul ponte nemico. Ci sono giusto gli iceberg a fare da elemento innovativo: distruggendoli a cannonate è possibile creare onde in grado di danneggiare le imbarcazioni nelle vicinanze. Ovviamente non mancano i vari upgrade con i quali rendere la Morrigan, la nave di Shay, sempre più potente e resistente, a patto di avere legno e metallo in quantità, da saccheggiare assaltando altri natanti o alcuni depositi.

Essendo Rogue ambientato durante la cosiddetta Guerra dei Sette Anni, che fra il 1756 e il 1763 coinvolse un gran numero di potenze europee e le rispettive colonie americane, ritroviamo parte di questo conflitto in un sottogioco strategico, la Campagna Navale. Non è altro che l’ennesima rivisitazione delle missioni della Fratellanza che abbiamo visto per la prima volta in Brotherhood. In questo caso abbiamo navi che possiamo spedire in giro per il globo, su rotte da rendere più sicure procedendo con semplicissime battaglie navali, sulle quali oltretutto non si ha quasi alcun controllo. È un modo come un altro per tirare su qualche soldino, anche se il metodo più veloce consiste nel restaurare monumenti ed edifici storici (a patto di avere tutto il materiale occorrente), che in cambio ci riempiranno le tasche di denaro. L’economia di Assassin’s Creed, del resto, è sempre stata quella…
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Requiescat in pace

Le tre macro-aree (New York, Nord Atlantico e River Valley) permettono una discreta esplorazione, ma non aspettatevi mappe particolarmente enormi. Gli insediamenti, tolta la futura Grande Mela, risultano piuttosto contenuti e sparsi un po’ ovunque. A dirla tutta, l’unica motivazione per lanciarsi nella scoperta di ogni singola location riguarda la raccolta di vari elementi in grado di sbloccare armature e manufatti segreti, che a questo giro comprendono Templari, nativi americani e vichinghi. Non che se ne senta davvero il bisogno, ma almeno si tratta di elementi in grado di estendere la non certo memorabile longevità.
[quotesx]Probabilmente il team bulgaro non ha la stessa dimestichezza con l’AnvilNext dei colleghi canadesi[/quotesx]

Sul piano tecnico è inutile attendersi miracoli. Le povere console old-gen sono ormai in piena età pensionabile e mostrano tutti i limiti di architetture vecchie di quasi un decennio. Aliasing, texture e ombre sgranate, frame rate traballante (ma quello è un problema anche di Unity, Ubisoft non ha perso il vizio), sono solo alcune delle magagne di un engine che comunque fa il suo sporco lavoro, anche se Black Flag ci era parso decisamente più curato e rifinito. Probabilmente il team bulgaro non ha la stessa dimestichezza con l’AnvilNext dei colleghi canadesi, tanto che in un paio di occasioni siamo persino incappati in un freeze completo del gioco. Purtroppo Rogue è un compitino realizzato a tavolino e si vede lontano un chilometro. Pur partendo da ottime basi narrative, rimane il più classico dei “more of the same”, proponendo un polpettone fatto con gli avanzi dei titoli precedenti.