Mi ricordo quando al mare, da piccolo, insieme a un mio amico guardavamo le automobili posteggiate lungo la spiaggia triestina di Barcola. Al di là dell’esaltazione implicita in ogni contachilometri (perché ‘volevamo’ credere che il fondo scala fosse sempre la velocità massima che ogni macchina poteva raggiungere, anche se in cuor nostro sapevamo..
Passiamo ora ai giorni nostri: le differenze tra un’automobile e l’altra sono sempre meno un dato di fatto e sempre più una suggestione di abili esperti del marketing. Perché, se andiamo a vedere bene, il pianale di una Fiat, di una Renault o di una Opel sono gli stessi. Discorso analogo per i motori. Ancora peggio se andiamo a guardare gli accessori: gli stessi impianti frenanti della Brembo, ad esempio, li possiamo trovare su una Ferrari come su una Mercedes, due mondi una volta distanti anni luce.
Perché questa lunga digressione, mi domanderete? Perché giusto oggi la mia attenzione è stata attratta da una news secondo la quale i francesi di Arkane Studios, gli sviluppatori dell’apprezzato Dark Messiah of Might & Magic, inizieranno a collaborare con 2K Boston per Bioshock 2 in aree attinenti “design, animazione e arte”. Se già l’accostamento tra i due team può apparire insolito, leggendo ulteriormente la notizia ho scoperto che Bioshock 2 sarà un lavoro a otto mani: oltre agli Arkane, infatti, collaboreranno anche 2K Australia (con compiti al momento non noti) e Digital Extremes per la creazione del multiplayer.
Questo che sto citando è uno dei tanti esempi di come oggi i videogame, così come le automobili in apertura, non siano più il lavoro di una sola realtà. Il tutto, sia chiaro, senza volermi arrogare la scoperta nel 2009 del middleware e delle terze parti. Eppure, volendo fare un altro accostamento, i videogiochi sono ormai come la cucina: oggi possiamo creare i nostri piatti usando ingredienti già pronti e preparati da altri o addirittura, se siamo proprio pigri, dando gli ultimi tocchi a dei semilavorati. Mi basta però andare indietro con la memoria all’infanzia per ricordare mia nonna che invece sceglieva al mercato i singoli ingredienti che poi preparava a mano. Questo, più di altri esempi, ci aiuta a comprendere come siano cambiate le cose nel volgere di pochi anni.
Tornando ai videogiochi, molto spesso ridiamo dei nostri conoscenti che, a digiuno di nozioni videoludiche, sono ancora convinti che essi siano il frutto del lavoro di un programmatore solitario che la sera macina codice nella propria cameretta. E quando noi spieghiamo che per le produzioni di maggiore successo sono necessarie centinaia di persone e budget multimilionari, un po’ ci divertiamo a vedere l’espressione di stupore che si dipinge sui loro volti. Al tempo stesso, però, noi dovremmo aggiornare la nostra concezione di videogame ragionando sul fatto che ormai molti di essi non hanno un solo padre, ma sono frutto di rapporti alquanto promiscui. Alzi la mano, ad esempio, chi conosce Emergent Game Technology. Ebbene, prima di scrivere questo editoriale (ammetto la mia ignoranza), non avevo mai sentito parlare di questa nuova società che produce middleware e che, a partire dal dicembre 2008, ha già raccolto finanziamenti per quasi 15 milioni di dollari e stretto accordi con 18 (dicasi, diciotto) partner, tra i quali THQ.
A questo punto però, e mi avvio alla conclusione, se i videogame stanno diventando sempre più dei collage di middleware che i publisher impacchettano apponendovi sopra la loro etichetta, il nostro modo di trattarli è al passo coi tempi? Se i produttori decentralizzano lo sviluppo tra fornitori distanti anche migliaia di chilometri, qual è la vera identità di un videogame?
Quando uscirà Bioshock 2, quanti redattori nel recensire il multiplayer ne analizzeranno il codice rapportandolo alle precedenti produzioni di Digital Extremes? Potremo ancora scrivere nella scheda tecnica il nome di un solo sviluppatore?
Insomma, la questione non è di poco conto. Certo, a volere sminuzzare un videogioco frazionandolo nelle sue componenti si rischia di perdere la visione d’insieme, oltre al fatto che difficilmente è possibile per noi del settore risalire a tutti i middleware e alle delocalizzazioni che contraddistinguono le produzioni odierne. Al tempo stesso, nel momento in cui recensiremo Bioshock 2 (prodotto che continuo a menzionare puramente a titolo di esempio), etichettarlo semplicemente come ‘l’ultimo gioco di 2K Boston’ rischierebbe di essere un atto di grossolaneria.
L’unica soluzione apparente è quella di considerare un videogame come un’opera d’insieme, non dimenticando quindi di informare il lettore, ove possibile, che ciò che ha appena acquistato è il frutto del lavoro di più team e analizzandolo di conseguenza. Più facile a dirsi che a farsi, a dimostrazione che la virtù starà anche nel mezzo ma che non sempre è facile da perseguire…