“Right now ha, ha, ha, ha, ha, I am an anti-Christ, I am an anarchist”, cantavano i Sex Pistols nel 1977. Parole ribelli e infuocate fatte proprie da un’intera generazione, sedotta e disillusa, figlia di un mondo che stava rapidamente cambiando e che di lì a poco non sarebbe più stato lo stesso. Eppure, dietro quei testi apparentemente rabbiosi si nascondeva una prorompente e coraggiosa denuncia sociale, volta ad estirpare le piaghe tipiche della società moderna. E come accade da secoli, in questi casi qualcuno deve ergersi a paladino della giustizia per ristabilire l’ordine mondiale, a mo’ di novello Guy Fawkes, in un ciclo senza fine di equilibrio, rovina e anarchia. Decenni dopo i testi di Johnny Rotten, la “piaga” dipinta metaforicamente da Dontnod Entertainment è la malattia folkloristica per eccellenza, un parassita in grado di corrompere l’umanità fin dalle sue radici, perché insito nel suo stesso sangue: il vampirismo. Per essere chiari, Vampyr è un progetto che sta parecchio a cuore a chi scrive, sia perché un po’ tutti noi della ciurma di GamesVillage abbiamo seguito con molta attenzione le gesta dello studio transalpino dai tempi di Remember Me, ma soprattutto perché, per una coincidenza fortuita e un po’ romantica, fu in assoluto il primo videogioco che il sottoscritto ebbe modo di intravedere in una fiera internazionale, l’E3 di due anni fa. Trascorsi quasi 24 mesi, abbiamo infine messo le mani sul suo progetto più ambizioso e siamo ora pronti ad illustrarvi i suoi pregi e i suoi difetti, ma anche a spiegarvi perché secondo noi, anche alla luce di quanto partorito negli ultimi anni, forse per Dontnod la dimensione giusta su cui lavorare non è quella di una produzione AA che studia per diventare grande. Perlomeno, non ancora.
Vita, morte e miracoli di un vampiro
Nell’Inghilterra cupa e decadente di inizio XX secolo, il “paladino” di Londra risponde al nome di Jonathan Reid. Medico chirurgo, veterano della Prima Guerra Mondiale, egli stesso è stato per disgrazia (oppure no?) trasformato in un vampiro, tragedia che lo ha inesorabilmente allontanato dalla sua famiglia e dai suoi affetti più cari. Malgrado la sua condizione e la sete di sangue con la quale è costretto a combattere ogni notte, Jonathan è più che determinato, forse per i suoi trascorsi passati, a trovare una cura per quella che lui stesso definisce una terribile malattia, in modo che nessun altro possa rimanervi contagiato. Questo incrollabile assunto, qualsiasi siano le vostre azioni, fa da sfondo all’intera storia e comporta soltanto lievi modifiche ai filmati, specie sul finale. La prima contraddizione di Vampyr si trova proprio nei meandri dell’aspetto che, visto il pedigrée del team che ha lavorato al gioco, dovrebbe essere il più importante: non esiste, dal punto di vista narrativo, una distinzione davvero netta ed incisiva (alla inFamous, per capirci) fra un percorso da vampiro “buono” e vampiro “cattivo”, libero di infischiarsene di tutto e tutti, missione finale compresa. Ed è un vero peccato, perché poi a livello strutturale il gioco vi permette, qualora lo desideriate, di uccidere praticamente quasi tutti i personaggi con cui potete interagire, che a dire il vero non sono neanche troppi: esclusi i più importanti comprimari legati alla storia, parliamo di una dozzina di persone per ognuno dei quattro quartieri della città. Le interazioni sociali sono o dovrebbero essere il cuore pulsante dell’esperienza offerta da Vampyr, e c’è da dire che per buona parte delle vostre scorribande riescono abbastanza degnamente nel loro compito. Soprattutto nel corso delle missioni principali, scritte più che degnamente e popolate da personaggi che riescono talvolta a risaltare perfino più del protagonista stesso, oltre a godere tutti di un ottimo doppiaggio, sul quale il publisher ha giustamente investito molte risorse durante il processo di sviluppo. Il problema, più che altro, nasce quando si prova a scendere un po’ più a fondo nell’amalgama di scelte e conseguenze (e noi, per vostra somma gioia, l’abbiamo fatto), pungolando in maniera neanche troppo forte l’illusione narrativa che ricopre ogni legame e ogni situazione. Così facendo ci si rende conto che in realtà non c’è molto altro sotto la – bellissima – superficie che è il racconto principale, e che la cosa migliore da fare è stare al gioco degli sviluppatori, accettando che siano perlopiù le parole enunciate in qualche apprezzabile cutscene a tenere insieme tutto quanto e insieme dimenticando non solo che, anche se provassimo a mettere indiscriminatamente a ferro e fuoco la città, le nostre azioni non avrebbero ripercussioni poi così evidenti sulla storia (che procede perlopiù dritta come un fuso per la sua strada), ma anche che non esistono interazioni fisiche reali in grado di legare i personaggi fra loro e all’ambiente in cui si trovano. Il mondo di Vampyr è, insomma, un tutto sommato apprezzabile contenitore di cristallo, pronto a rompersi in mille pezzi nell’esatto momento in cui cominciamo a porci delle domande, interrogandoci sulla nostra effettiva libertà.
Un morso qui, l’altro là…
Il punto è che quando poi si entra nel vivo dell’azione, dimenticando le dissonanze fra narrativa e struttura di gioco, molti aspetti riescono anche ad essere divertenti e ad intrattenere per parecchie ore. Entro limiti ben definiti, Jonathan può infatti muoversi come meglio crede, trasformandosi in un vero e proprio deus ex machina e decidendo in maniera netta e definitiva il destino di ogni personaggio secondario, con alcune eccezioni. Se optate per la via del buon samaritano avrete accesso a diverse quest secondarie, tutto sommato piacevoli e ben raccontate, anche se strutturalmente molto classiche; se invece vi trasformate in un mefistofelico giustiziere della notte, otterrete un determinato quantitativo di punti esperienza per ogni cittadino eliminato, stabilito sulla base della qualità del suo sangue. Tale ammontare di XP può essere maggiore nel caso in cui decidiamo di curare gli ammalati per poi eliminarli brutalmente, oppure se stringiamo con loro maggiori relazioni. Ad esempio, completare le quest a loro legate per poi farli fuori, ove possibile, non è una cattiva idea. Dando libero sfogo alla vostra sete, ben presto – anche nell’arco di una sola notte – porterete i quartieri al collasso totale, e zone prima tranquille verranno popolate da licantropi, skal e qualche vampiro ostile. Tutto ciò è legato ad un sistema di crescita esageratamente asimmetrico, che premia solo e soltanto chi decide di compiere una vera e propria strage, infischiandosene di completare qualche quest opzionale in più. Dal canto nostro, arrivati a metà avventura e svolta qualche missione secondaria, abbiamo deciso di assassinare uno dopo l’altro tutti quanti gli NPC in tre dei quattro quartieri (prima di allora non avevamo mai torto un capello a nessuno). In via teorica avremmo dovuto essere limitati dal livello di fascinazione di Jonathan, ma questo parametro, inserito per impedire al nostro di mordere ogni collo gli si pari davanti fin dalle prime fasi, soffre di un enorme problema che compromette l’intera progressione: il quarto livello (su cinque) si sblocca infatti poco dopo la metà della storia, dando libero accesso – in un sol colpo – ad almeno il 90% dell’esperienza accumulabile suggendo il sangue altrui e rendendo la fase conclusiva del gioco una vera e propria passeggiata di salute. Passati in scioltezza dal livello 25 al cap massimo (50) in poche ore, non abbiamo fatto altro che abbattere drasticamente il livello di difficoltà, cosa che, da quel momento in poi, ci ha permesso di eliminare quasi ogni nemico con pochissimi colpi. Quello che prima era un action adventure dal sapore vagamente Bloodbordiano, nel quale, centellinando la stamina, bisognava dosare attentamente affondi e schivate, si è trasformato quasi in un god game (no, nel dirlo non ci riferiamo al sottogenere proprio dei gestionali). Intendiamoci, non che sia sbagliato, dal punto di vista narrativo, permettere al protagonista (un vampiro) di diventare più forte facendo quel che sa fare meglio. Il problema, e qui risiede la seconda contraddizione di Vampyr, sta nella forbice di difficoltà fra i due percorsi, che appare davvero mal studiata. Eppure, sfruttando il pretesto della professione di Jonathan, ci sarebbe stato spazio a sufficienza per inserire nel good path un intero campionario di quest o di semplici sfide legate all’analisi del sangue per trovare una cura, il tutto allo scopo di limare almeno un po’ le eccessive differenze fra un estremo e l’altro, differenze che, invece, lasciano davvero l’amaro in bocca.
Visto e considerato tutto quanto, è perfino deprimente mettersi a parlare delle fini meccaniche che conferiscono un minimo di profondità al sistema di combattimento, fra cui la possibilità di stordire i nemici (in più di un modo) per poi morderli e ottenere del sangue. Quest’ultimo è utile, a mo’ di mana, per utilizzare i poteri vampireschi di Jonathan, perfettamente contestualizzati all’interno della lore del gioco e suddivisi fra manovre offensive (artigli e “lance”) difensive (muri insanguinati) ed evasive (il classico teletrasporto). Il combat system è globalmente ben studiato e vi permette di destreggiarvi senza problemi in ogni situazione, ma dovrete essere voi a decidere se “farlo funzionare” o meno. Siete avvisati: se supererete il livello 40 non avrete più nessun nemico in grado di fronteggiarvi e mettervi seriamente in difficoltà. L’unico, vero intralcio al percorso malvagio è il boss finale, che, almeno nel nostro caso, si è rivelato piuttosto arduo da sconfiggere e ci ha dato l’impressione di essere un ostacolo calcolato, inserito quasi per punire i giocatori “cattivi” proprio sul più bello. Nel corso delle 20-25 ore necessarie per giungere al finale ci sono almeno un altro paio di scontri apprezzabili e che fanno uso dell’ambiente in modo piuttosto intelligente: in un caso, ad esempio, Jonathan si ritrova a combattere un nemico che lo obbliga a muoversi costantemente per l’arena, pena l’esposizione a enormi fari UV. Molte boss fight, specie all’interno dell’avventura principale, sono però collocate al termine di dungeon davvero troppo semplicistici dal punto di vista del level design, un altro aspetto costruito imitando vagamente la struttura circolare dei Souls, senza però raggiungere – neanche lontanamente – la loro varietà o complessità. Dal punto di vista visivo, invece (ed è inutile girarci attorno), Vampyr è assolutamente splendido. La ricostruzione – liberamente romanzata – della Londra del 1918, famosa per la sua decadente bellezza, è eccezionale. Malgrado le tinte restino diametralmente opposte rispetto a Life is Strange, lo stile artistico e la continuità visiva di Dontnod sono chiaramente percepibili in ogni angolo della città, fatta di strade cupe e annebbiate, esse stesse intrise del marciume che permea l’intera comunità. Tutto questo bendiddio, mosso da una versione modificata dell’Unreal Engine, crea però qualche evidente problema di ottimizzazione, almeno su console: oltre alle solite (e comprensibili) schermate di caricamento, che compaiono principalmente nel momento in cui si accede ad alcuni ambienti chiusi, bisogna fare il callo ad evidenti cali di frame rate, che qualcuno potrebbe trovare piuttosto fastidiosi, e a qualche freeze della durata di pochi secondi, che si verifica soprattutto se ci si sposta velocemente da una zona all’altra. È infine completamente assente – per ora – il supporto a PlayStation 4 Pro e Xbox One X, la cui maggior potenza avrebbe sicuramente giovato all’intera esperienza, quantomeno per avere performance più stabili.
Proprio come Remember Me, Vampyr è un titolo che vive di luci e ombre e che sembra uscito direttamente dalla scorsa generazione, un’epoca videoludica ricca di pregi e contraddizioni che ormai non esiste più. Brilla – non senza qualche piccola perplessità – nella narrativa, ma al contempo cade vittima di alcune ingenuità a tratti perfino grossolane e fortemente penalizzanti, almeno per un titolo che, per coerenza con il suo genere, non dovrebbe più soltanto limitarsi a raccontare una storia, bensì provare anche a fare qualcos’altro. Doveva essere il progetto della definitiva consacrazione di Dontnod, ma così, purtroppo, non è stato. Gli appassionati dei precedenti lavori dello studio d’oltralpe probabilmente lo ameranno comunque, riconoscendo nel gioco un’impronta autoriale ben visibile nella scrittura di storia e dialoghi e nell’impatto visivo. Tutti gli altri, però, dovrebbero pensarci su due volte. Se anteponete la narrativa al gameplay, Vampyr può sicuramente piacervi, ma anche in quel caso dovreste mettere in conto più di un elemento, fra cui la totale mancanza di un’interazione che non sia “fai la spola da un NPC all’altro”, prima di dargli quella chance che comunque, per determinate nicchie di pubblico, merita.