Ci sono volte che esci dalla sala a bocca aperta. Niente effetti speciali, né regia stereoscopica: solo grande cinema. Gli amici ti chiedono: “Ti è piaciuto?” e tu sei ancora troppo inebetito per rispondere, affascinato dalla mirabile coincidenza di elementi che hanno generato lo spettacolo perfetto cui hai avuto la fortuna di assistere. Questo vale per molti film dei Coen, ma per Suburbicon proprio no. Il film, in Italia dal 6 Dicembre, è stato realizzato da George Clooney dopo aver ampiamente rimaneggiato una sceneggiatura che i Coen hanno scritto nel 1986 e che avevano saggiamente riposto in un cassetto.
Suburbicon è una cittadina in stile Lumberton di Blue Velvet, un piccolo paradiso coperto da una patina immacolata che nasconde una marcia verità. La storia è quella dei Lodge, famigliola composta dal piccolo Nick (Noah Jupe), padre Gardner (Matt Damon), madre Rose (Julianne Moore) e zia Margaret (Julianne Moore). Una sera il papà va dal figlioletto mentre ascolta il suo programma radio preferito (siamo nel ’59) e gli dice: “Ci sono degli uomini in casa. Prenderanno quello che vogliono e poi se ne andranno”. E invece cloroformizzano l’intera famiglia. Nick si sveglia e scopre che la mamma è morta. La zia, senza farsi troppi problemi, s’infila presto nelle scarpe (e nel letto) della sorella.
Affiancate alle vicende dei Lodge, per qualche ragione a me inspiegabile, Clooney ha deciso di raccontare quelle dei Meyers, una famiglia di neri che si trasferisce a pochi passi dai primi. Il fatto scatena le ire dei benpensanti, che credono “nell’integrazione, ma solo quando i negri saranno pronti“. Benché sia sempre costruttivo esporre storie di razzismo sul grande schermo, l’impressione che risulta dalla messa in scena è che Clooney abbia svolto il compitino in modo da guadagnarsi i favori del pubblico nero statunitense. Le due trame, infatti, non si intersecano mai, se non molto debolmente all’inizio e alla fine del film.
I personaggi, dall’una e dall’altra parte della barricata, rimangono abbozzati. Il personaggio di Damon è un tipico soggetto dei Coen, ottuso e calcolatore, e il suo piano raggiunge vette di crudeltà aberranti. Non basta però la cieca cattiveria del sobborgo statunitense, l’atmosfera tragicomica e il ritornello hobbesiano dei lupi e degli uomini a farti esclamare: Coen, vi riconosco!
In generale ci si annoia. L’unico momento elettrizzante è quando arriva l’assicuratore interpretato da Oscar Isaac, che deve indagare sulla polizza della moglie. Isaac, bravissimo, in venti minuti si mangia tutti gli altri.
Se Clooney si fosse concentrato sulla trama principale, avesse approfondito i personaggi, esasperato la comicità che pure evidentemente ricerca, esaltato il lirismo tragico, starei parlando di un altro film. Uno che valga la pena ricordare.
Suburbicon rimane comunque un’esperienza piacevole, ma forse più per l’immaginario che evoca (quello dei Coen) che per ciò che mostra.
Solo per veri fan.