L’adolescenza di molti ragazzi si tinse di vivido rosso pomodoro nell’aprile del 1988, quando il più truculento dei beat’em up scorrevoli inzaccherò i pavimenti delle sale giochi di mezzo mondo. Esaltati da cotanta ultraviolenza, i gamer dell’epoca usavano intrattenersi all’esterno delle sale rievocandone i morbosi eccessi e non era affatto raro sentire i più grandicelli apostrofarlo come “il gioco di Venerdì 13”.

Benché Splatterhouse non disponesse di alcuna licenza ufficiale che lo legasse alla celebre saga cinematografica, era palese che gli sviluppatori della Namco avessero in mente Jason Voorhees al momento di dare un volto al protagonista della loro opera.

A partire dalla logora tuta da meccanico che ne avvolgeva il corpo, per giungere all’iconica maschera appiccicata sul suo volto, il possente sprite di Rick Taylor non si limitava in effetti a scimmiottare il look del mostro in celluloide, ma ne ricalcava rigorosamente ogni singola caratteristica.

Piuttosto che favorire ai responsabili del plagio una bella denuncia per violazione dei diritti di immagine, questa intuizione si rivelò determinante per il successo del progetto: stanchi di vestire i panni del solito bellimbusto dal ciuffo birbante, i giocatori accolsero difatti con marcato entusiasmo l’opportunità di interpretare un antieroe dai tratti così esasperati.

Per la prima volta da chissà quanto tempo si aveva, in altre parole, la sensazione che fossero i cattivi a dover temere il buono di turno e non viceversa. Liberi del senso di precarietà tanto caro ai survival horror contemporanei e dai tempi registici della filosofia del brivido, gli utenti si sarebbero dunque potuti godere un catartico bagno di sangue dalla delirante anima di Pulp Novel…

Roba da Planet Terror, piuttosto che da Amitiville Horror, cui avrebbe fatto peraltro da eco un insolito leit motiv romantico. E sì, perché alla base dell’inesauribile vocazione al massacro propria del signor Taylor altro non v’era che il vecchio ideale d’amor cortese, ovvero sfidare morte, periglio e dannazione per salvare la propria amata…

In barba alle aspettative, la saga di Splatterouse non proseguì in ambito Coin-Op. Convertito in salsa home nel 1990 grazie alla miracolosa intercessione del PC Engine, il marchese de Sade video-ludico si sarebbe accasato di lì a poco sui circuiti del Mega Drive, dando alla luce due eredi tutt’altro che pacioccosi.

Pur non assurgendo mai al rango di Hit mondiale, Splatterhouse è sopravvissuto fino ad oggi grazie alla memoria storica dei suoi aficionado, assumendo quell’aura da Cult Game che ha recentemente spinto Namco a rispolverare il brand nell’ambito di un reboot tutt’altro che fortunato.

Spogliato della sua tradizionale veste 2D e catapultato alla mercé di un pubblico oramai abiutato a siparietti di violenza ben più cruda e realistica, Rick Taylor ha difatti finito con l’apparire goffo e spaesato. Tanto da sconsigliare ogni ulteriore speculazione a tema. Quanto a noi, preferiamo senz’altro ricordarlo com’era ai tempi del suo cubettoso debutto: esagerato, brutale e… dannatamente adorabile.