Barriere – Recensione

Pittsburgh, anni ’50. Giorno di paga per il netturbino Troy Maxson (Denzel Washington), ex stella della Negro League. Come ogni venerdì, Troy siede nel suo cortile assieme all’amico Bono (Stephen Henderson), a bere gin e a raccontare storie. Si parla del passato, della galera, delle sue speranze distrutte dai soprusi dei bianchi. A volte esagera con la fantasia, racconta di aver battuto la Morte – che gli ha promesso un rematch – e che ha incontrato il Diavolo. Quando succede ci pensa la moglie Rose (Viola Davis) ha riportarlo sui binari. O almeno ci prova: Troy ha un carisma travolgente e la sua personalissima visione della via è totalizzante. A farne le spese, manco a dirlo, è la famiglia. Un esempio su tutti: il figlio minore Cory (Jovan Adepo) ha diciassette anni, anche lui una promessa dello sport, come a suo tempo fu il padre, ma siccome Troy non crede che le cose possano cambiare, che il ragazzo sarà escluso per il colore della sua pelle, gli impedisce di perseguire il suo sogno. Insomma, se il pretesto drammatico è banalmente la costruzione di un recinto nel cortile di casa, la metafora della barriera investe tutto il tema dell’incomunicabilità, verso gli altri, ma forse ancor più verso se stessi.

Denzel ha due palle così. E non parlo del baseball

Potrei agilmente descrivere Barriere (Fences) come un film statico, pesante e dalla durata eccessiva, con una regia anonima al servizio di un cast in cerca di statuetta. Potrei, ma sarebbe banale. Il film, va detto, è tratto dall’opera teatrale che valse ad August Wilson il premio Pulitzer. Per molti anni è stata paventata una trasposizione cinematografica, ma i tentativi sono falliti a causa dell’ostinazione dello stesso Wilson perché il regista fosse nero. Infine è spuntato Washington, che l’ha già recitato a teatro, e si è portato dietro la maestosa Viola Davis. Dire che Barriere non riesce a far dimenticare la sua origine teatrale è corretto solo in parte. A dirla tutta a me pare proprio che non ne abbia la minima intenzione! La sceneggiatura è rimasta quella dell’opera, tanto che il nome di Wilson è il solo a figurare fra i credits. L’ambientazione rimane grosso modo quella della casa (la veranda sul davanti, l’interno, il cortile sul retro). La portata delle parole è inalterata e gli attori principali sono quasi gli stessi dell’ultimo revival. Si potevano operare una serie di scelte per rendere Barriere più cinematico. Tagliare scene, introdurre personaggi che, pur assenti, hanno peso sulla storia, aggiungere musica (che è quasi nulla), et cetera. E non posso credere che sia casuale. Sostengo piuttosto che tali scelte siano state saggiamente scartate; che non sia pigrizia e che non c’entrino gli Oscar: ci vogliono due palle così per realizzare un film del genere.

Grandi attori e scrittura magistrale

Quando il cinema hollywoodiano sembra attraversare una fase adolescenziale e i suoi tentativi risultano futili anche nelle sue espressioni più impegnate (vedi Birth of a Nation o Hell or High Water) il film di Denzel Washington se ne sbatte altamente del sangue, dei facili sentimenti, delle esplosioni così come dei massimi sistemi. Rimette al centro le 3 cose imprescindibili: la parola, l’uomo e la macchina da presa (in questo caso al servizio dei primi due). Già, perché Barriere (ci sono un Pulitzer e i Tony Awards a dimostrarlo) è scritto e recitato da dio. E stica**i del resto. Certo, il cinema può e deve fare molto altro. Ma non è quello che interessa qui. Ora forse è il caso che il teatro ricordi al cinema una non piccola, ma decisamente incisiva lezione: che se sai scrivere, sai recitare, e hai una certa creatività – puoi fare un gran bel film.
La battuta, naturalmente, è dietro l’angolo. Li sento già dire: “Guarda il close-up che Denzel si è fatto da solo, si è scoperto cineasta e ora vuol trasformare i Tony in Oscar“. Facile caderci, soprattutto dopo aver assistito a sproloqui per due ore e trenta minuti. Ma oggi voglio essere serio: voglio il silenzio, l’ostinazione, quel dolore che non riesci a credere sia solo recitazione. Al cinema voglio vedere colpi micidiali e non importa se, per una volta, a darli non sono pugni d’acciaio ma parole grosse come macigni. Ché le parole, quelle che ci vengono dette tutti i giorni, puoi far finta di non ascoltarle. Ma non puoi schivarle. Mai veramente.

Nota: io l’ho visto in inglese sottotitolato. Sono grandi attori, sono neri e parlano in slang. Insomma, fanno musica.