C’era una volta a Hollywood | Sarebbe un vero peccato se questa fosse davvero la penultima pellicola firmata Quentin Tarantino. Sarebbe anche la penultima delle attese, la penultima volta che – tra un film e l’altro – pseudo-scoop più o meno veritieri si rincorrono prima dell’uscita ufficiale dell’ennesimo capolavoro in sala. Ed anche questo dream team sfoggiato sulla locandina, il cui tridente d’attacco è formato da Leonardo DiCaprio, Brad Pitt e Margot Robbie (con un’irresistibile Al Pacino a smistare palloni sulla trequarti…), potrebbe essere il penultimo di una lunga serie, iniziata con i Buscemi-Roth-Keitel di Reservoir Dogs fino all’asse Jackson-Russell di The Hateful Eight. Per fortuna però, il maestro di Knoxville, Tennessee negli anni ci ha insegnato anche a ribellarci ai diktat imposti dalle case di distribuzione, le quali, per paura di perdere pubblico, non si azzardano mai a divulgare lungometraggi da più di due ore e spiccioli. Il problema semmai sono i film brutti, e quelli non sembrano finire mai anche quando durano soltanto 90 minuti. Lui di questi problemi non ne ha. Quindi godiamoci queste penultime 2 ore e 40 del suo cinema. Sperando in qualche eventuale ripensamento o, almeno, in nuove edizioni home video che aggiungano al già visto un’altra mezz’ora almeno di girato.
Il trio delle meraviglie.
C’era una volta a Hollywood, la definitiva maturazione di Quentin Tarantino
Al di là di quello che è successo, fa un certo effetto non leggere più il nome di Harvey Weinstein tra i titoli di testa di C’era una volta a Hollywood. Prima dei fattacci ormai noti, l’ex demiurgo del cinema americano aveva collaborato spesso con Tarantino, sia investendo in prima persona nei film (Grindhouse – A prova di morte, Bastardi senza gloria, Django Unchained e The Hateful Hate ) sia nelle vesti di produttore esecutivo.
Negli ultimi due anni l’industria dell’audiovisivo made in Hollywood è stata (s)travolta dagli scandali sessuali, dai cicloni #metoo e dalla potenza mediatica di un movimento sconfinato in breve tempo anche oltreoceano, anche nell’oltre-cinema. Una cappa di buoni propositi ha iniziato a vegliare sulle vette di un mondo già di per sé decisamente avvezzo all’autoreferenzialità patinata, alle belle intenzioni da copertina. Tarantino non poteva restare a guardare. Lui che, negli anni, era stato accusato di promuovere violenza gratuita coi suoi film, talvolta addirittura biasimato per aver fatto un cinema di pura estetica della crudeltà. In C’era una volta a Hollywood le parti pulp sono invece ridotte all’osso. Gli schizzi di sangue sono volati lo stesso, ma la mattanza – molto più metaforica che fattuale – è stata quasi ideologica, con mannaie da macellaio che roteano dritte dritte verso un obbiettivo polemico chiaro: lo star system della West Coast.
C’è una misoginia di fondo, in questo ottavo titolo del Tarantino Cinematic Universe, che non può mai essere presa fino alla fine. Al netto della bellezza formale del suo lavoro, della capacità di gestire i formati (dal 16 al 35 mm, passando per la aspect ratio televisiva), il Tarantino che apparentemente elogia la Hollywood di una volta è in verità estremamente critico nei confronti degli studios, siano quelli di ieri o di oggi. Poco conta. Così, le ragazzine hippy che in short invadono L.A. diventano l’emblema di un matronato appena messo al mondo, di una ribellione all’oppressività maschilista che, traslata negli abiti del contemporaneo, diventa essa stessa oppressiva, essa stessa feroce, almeno quanto le violenze del sesso opposto.
Di Caprio in grandissima forma.
C’era una volta Hollywood. C’è e sempre ci sarà.
Le allusioni di leoniana memoria (“chi è Corbucci? È il secondo regista più bravo a fare spaghetti western…”), i titoli epici, le locandine fake dei film, restituiscono un 1969 che non è soltanto il Vietnam, la morte di Sharon Tate e l’avvento della tv commerciale.
In quell’ estate/autunno del ’69 ad Hollywood era già in corso un processo di lento ritorno all’ equilibrio. Il 1968, con le sue utopie ed i desideri di riscossa, non aveva poi scosso più di tanto certi equilibri. L’ondata pacifista doveva essere un terremoto, The Big One. Invece era stata una scossa che aveva fatto vibrare appena i vetri, forse cadere qualche mela dall’albero. Ci saranno i Dennis Hopper, i Cassavetes e Mekas, i Roger Corman e la Beat Generation. Ma il sistema continuerà a sopravvivere senza particolari ritorsioni, al massimo qualche piccola crepa strutturale. Poi però c’è Tarantino, che da dentro quel sistema trova mezzi e uomini per criticarlo senza mezze misure, per sferrare critiche pur guadagnando (e facendo guadagnare!) frotte di quattrini. Come faceva John Ford. Saremo mica tornati ai tempi del Codice Hays? È un vero peccato se così fosse. E se questa fosse davvero la penultima pellicola di Quentin Tarantino?