In questa recensione di Voice of Cards The Beasts of Burden confluiscono in realtà ben tre esperienze che ho di recente vissuto in tre videogiochi uguali… ma diversi tra loro. Sto parlando, oltre che di The Beasts of Burden stesso, di Voice of Cards The Isle of Dragon Roar, e di Voice of Cards The Forsaken Maiden. Tre titoli di genere J-RPG “con l’accento sull’RPG”. A pensarci bene, in effetti, non è che la J si risparmi dal fare la sua parte nel definire l’essenza del trio. Del resto, tra i nomi che scorrono nei credits ne spicca con veemenza uno in particolare: un certo Yoko Taro, avete presente? Nier, Drakengard… tutta “roba sua”, e tutta produzione rientrante nei classici topoi, canoni, immaginari nipponici.
L’impronta di Taro stavolta si “stampa” però su di un esperimento che coinvolge maggiormente, come anticipavo poc’anzi, una componente RPG meno videoludica, e più analogica. E che a differenza della porzione di titolo influenzata dalla “J” di cui sopra è perciò molto più originale e meno prevedibile di quanto possiate immaginare. Nel caso in cui non abbiate ancora capito di che videogioco sto per raccontarvi, infatti, Voice of Cards The Beasts of Burden unisce un classico JRPG a un titolo con dinamiche da Card Game; e poi, continua fondendo il tutto alla tecnica di un GDR carta e penna “narrato”, come suggeriscono i sottotitoli in game. Anche se il termine migliore, lo stesso che si sente pronunciare nel doppiaggio inglese, dovrebbe essere “masterato”…
Voice of Cards The Beast of Burden: la fanciulla che sussurrava ai mostri
Le storie di Voice of Cards, tutte senza esclusione, condividono una profonda assonanza, probabilmente dovuta alla comune paternità. Non sono sequel/prequel le une delle altre; pur se ambientate in quello che pare proprio essere un mondo, o universo condiviso, sono ben distinte, e persino ritmicamente varie. La gestione dei colpi di scena, delle rivelazioni, degli eventi notevoli, insomma, è diversa. Eppure, i protagonisti di Yoko Taro, se ci fate caso, sono spesso molto simili; quasi sempre giovani, con sogni e speranze in sospeso, che a fatica e con impegno si dibattono per raggiungere i loro obiettivi. Cosa potrà mai andare storto, se non… tutto? E infatti, puntualmente, perdono tutto, o quasi. Per poi ricominciare dal fondo, resilienti, motivati dai sentimenti cardine più intensi quali vendetta, promesse fatte a X o Y, desideri inconfessabili e mai soddisfatti ecc..
La protagonista femminile di The Beasts of Burden, però, dei suoi tre predecessori nella serie Voice of Cards è quella che “perde tutto” più in fretta. All-in! La fanciulla, infatti, ha vissuto i suoi primi venti (circa) anni in un minuscolo villaggio sotterraneo. La superficie, infestata di mostri super aggressivi, è sempre stata tabù per lei. Circondata da affetti e serenità, però, sembrava in qualche modo essere serena. Finché un branco di mostri non decide di irrompere nel villaggio e uccidere tutti tranne lei. Sconvolta, viene però salvata da un giovane combattente, che la porta in superficie e la guida alla scoperta dei suoi poteri sopiti. In breve, infatti, la ragazza capisce di essere capace di controllare i mostri, catturandoli in speciali carte e usandoli per combattere. Cercherà vendetta verso chi ha ordito la distruzione del suo villaggio, o preferirà seguire il suo sogno da bambina: vedere le stelle? Difficile, dato che nel suo mondo non cala mai la notte…perché? Mistero. Uno dei tanti che Voice of Cards The Beasts of Burden vi invita a rivelare mentre esplorate il suo ampio mondo di gioco. E ne… scoprite le carte una a una.
Ce l’ho, ce l’ho, mi manca
Inevitabilmente, per farvi capire come mai The Beasts of Burden sia abbastanza più interessante dei suoi predecessori lato gameplay, devo fare un piccolo excursus proprio su The Isle of Dragon Roar e The Forsaken Maiden. Nonostante il prezzo budget, almeno rispetto al peso narrativo e quantitativo di due avventure più che rispettabili, entrambi furono accolti tiepidamente dal pubblico e dalla critica. Per alcuni, l’ibridazione con il card game fu stata eseguita con troppa delicatezza, per altri con troppa poca forza. Certi giocatori non ne apprezzarono invece la lentezza, che contraddistingue anche The Beast of Burden; inalienabile dal core di gioco, però, quando pensiamo al modo in cui ci muoviamo, combattiamo, ascoltiamo o leggiamo le storie che Voice of Cards racconta. La trovata creativa, e abbastanza originale oggigiorno in ambito videoludico, è questa: tutto, mappa di gioco, personaggi, mostri, attacchi, tesori è fatto di carte. Carte coperte, nel caso della mappa dell’ over world, dei dungeon o di alcune istanze, che avanzando scopriamo a tre a tre.
Cosa troveremo sull’altra faccia? Un percorso sicuro? Un nemico? O magari un forziere, chissà. Un NPC ci sbarra la strada: deve dirci qualcosa. Un unico narratore, il game master, ci leggerà il suo dialogo, ci descriverà la scena. Giocatori di GDR, sapete di cosa parlo: “Era una notte buia e tempestosa”. Potremmo dover scegliere come rispondere, o magari no. Viene il momento di combattere? Siamo teletrasportati su una plancia, un tavolo, dove a ogni personaggio corrisponde una mano di carte diversa. Dalla quale si può scegliere un’azione come attaccare, difendersi, usare un potere particolare spendendo cristalli (a.k.a. mana) magari. Lanciare dei dadi, di tanto in tanto, per risolvere effetti e infliggere danni. In The Isle of Dragon Roar e The Forsaken Maiden, ancora più semplici di The Beasts of Burden, ogni personaggio giocante ha un suo percorso a livelli; con attacchi che si sbloccano gradualmente, specializzazioni elementali e “ruoli” (guaritore, fps) suggeriti dalle azioni sbloccate a loro disposizione. Mentre nell’ultima istallazione della serie, oltre a ciò, ogni personaggio può essere dotato di attacchi sbloccati combattendo mostri specifici. A raccontarlo così, però, sembra più complesso di quanto non sia.
Non è per forza un male, invece, che il combat-system di The Beasts of Burden resti semplice e immediato. A turni dipendenti dalle statistiche dei coinvolti, con debolezze e resistenze elementali, ma decisamente più movimentato che in passato grazie alla variabile degli attacchi mostruosi. Non essendo limitati dalle azioni che ogni personaggio sblocca in autonomia, infatti, possiamo sbizzarrirci con build diverse, per affrontare dungeon differenti o Boss particolari. Almeno… in teoria. Difficilmente, se evitate di skippare la maggior parte delle battaglie casuali sulla plancia, vi troverete in difficoltà. E sbloccando i poteri giusti, affidati ai personaggi con statistiche tali da valorizzarli, non molti saranno invogliati a cambiare strategia solo “per il gusto di farlo”. Questo, purtroppo, è un problema tipico di Voice of Cards, portato avanti di capitolo in capitolo senza che, in apparenza, si faccia mai nulla per cambiare… le carte in tavola. A questo punto viene da pensare che l’errore stia nella mia dichiarazione precedente: “non molti saranno invogliati a cambiare strategia per il gusto di farlo”. Perchè dal momento in cui capiamo che The Voice of Cards The Beasts of Burden non è un semplice JRPG, ma un J-RPG (la differenza ormai credo di averla spiegata) siamo quasi chiamati a immedesimarci; a sperimentare e a partecipare alla fantasia di gruppo nella quale siamo coinvolti. Proprio “per il gusto di farlo”.
L’esperimento raffinato di Yoko Taro si perfeziona
Al termine della recensione di Voice of Cards The Beast of Burden avrete capito che anche questo capitolo non è, quindi, un videogioco classico adatto a tutti i fan dei JRPG. A dispetto degli elementi canonici per il genere che porta con sè, infatti, propone una struttura e un’evoluzione complessiva dai ritmi unici. Per alcuni, troppo lenti e poco coinvolgenti. La voce monotono del narratore può venire a noia (e in The Beasts of Burdens, ahimè, è accaduto presto nel mio caso); o magari il ripetersi di battaglie casuali rappresentate sempre solo da un tavolo con sopra un mucchio di carte può non stimolarvi a sufficienza. Visto che, poi, non sono nemmeno troppo animate, per mantenere il feeling da “stai giocando a un gioco da tavolo”. L’esperimento di Yoko Taro, insomma, si muove e si è evoluto su di un raffinato gioco di equilibri, non sempre bilanciati e non ancora sviluppati al massimo delle loro possibilità. Denudando il videogioco il più possibile per rivestirlo di carte e tavolini, dadi, monete e narrazione onnisciente da GDR carta e penna.
Piattaforme: PS5, PS4, PC, Switch
Sviluppatore: Alim
Publisher: Square Enix
Arrivati al terzo episodio, però, qualcosa si è mosso, è cambiato. Ci si è accorti, evidentemente, che spogliare troppo il videogioco da sè stesso rallentava inutilmente l’azione, la trasportava sul supporto sbagliato per certi ritmi, e ne sviliva le qualità, pure presenti e numerose. Così, in Voice of Cards The Beasts of Burden c’è più “video” di “video-gioco”, tra eventi casuali che cambiano il corso di alcuni scontri con i Boss randomicamente, effetti grafici più particolari per attacchi meno statici. Legati, fra l’altro, a una meccanica di “collezione e cattura” di mostri e carte tanto cara ai videogiocatori. Restano invariate, e perché non dovrebbero, tutte le altre caratteristiche della serie. Che, allora, a questo punto o le ami, o le odi. Restano, pure, la lentezza e calma che contraddistinguono tutti e tre gli episodi, la loro narrazione, a dispetto dei temi trattati; che ancora una volta sono brillanti, vivaci e, pur se non originali, misteriosi quanto basta per condurre il giocatore fino ai finali (come sempre più di uno) in relativa scioltezza. Certamente, infine, mi viene spontaneo dire che The Beasts of Burden sia il miglior capitolo della saga. Che speriamo possa proseguire in futuro, magari con qualche guizzo creativo in più. Qualche… asso nella manica.