L’industria degli anime è sicuramente tra quelle più in crescita del panorama economico internazionale. Pur se nell’ultimo anno, come in tutte le attività produttive, è arrivata una frenata, l’animazione giapponese non fa che registrare un miglioramento esponenziale dei suoi numeri, di anno in anno. A questo successo ha sicuramente contribuito l’espansione del medium al di fuori dei confini nazionali, e la sempre maggiore notorietà globale che queste opere hanno saputo guadagnarsi, grazie ad alfieri come Dragonball, One Piece, Naruto, L’attacco dei giganti, My Hero Academia, Demon Slayer e altre ancora.
La vita dell’animatore di anime però non è affatto semplice. Da tempo infatti sono note le condizioni di lavoro davvero pessime a cui alcuni studi costringono i loro dipendenti. Tra crunch time esagerati e paghe da fame, scegliere di lavorare nell’industria dell’animazione nipponica può davvero essere una scelta che condiziona l’intera vita. Questa problematica è tornata alla ribalta di recente, grazie a numerosi articoli e a interventi dei diretti interessati, gli animatori, sui social media.
A fondo della questione è voluto scendere anche il prestigioso quotidiano americano New York Times, pubblicando un’inchiesta su questa situazione incresciosa. Nel corso delle loro ricerche i due giornalisti del Times, Ben Dooley e Hikari Hida, hanno avuto modo di confrontarsi non solo con animatori nuovi a meccanismi dell’industria, ma anche con dei veterani. E quello che hanno scoperto è sconcertante.
Nell’intervista a Tetsuya Akutsuo, da 8 anni in questa industria i due giornalisti hanno scoperto che per ricevere un salario “onesto”, un giovane animatore deve dedicare praticamente tutte le sue ore di veglia al lavoro,il che frena moltissimi dal crearsi una famiglia:
“Voglio lavorare nell’industria degli anime per il resto della vita. Quindi so che non potrò sposarmi o mettere su una famiglia”
Sembra che alcuni freelancer riescano a raccimolare soltanto 200 dollari al mese dal loro lavoro, piazzandosi ben al di sotto di un salario medio in Giappone. Alla domanda sul perché gli studi di animazione possano permettersi di tenere gli stipendi tanto bassi ha invece risposto la traduttrice di manga Simona Stanzani, che ha citato la grande quantità di domanda che esiste per questi posti di lavoro:
“Ci sono moltissimi artisti lì fuori, e sono pazzeschi. Gli studi hanno un sacco di carne da cannone, non hanno ragioni per alzare gli stipendi”
In questo panorama desolante assume dunque tutta un’altra dimensione l’iniziativa di Netflix, che he messo in palio, per alcuni animatori, una borsa di studio presso uno dei nomi più rinomati del panorama anime: Wit Studio, i creatori delle prime tre stagioni de L’attacco dei giganti.
Non resta che augurarci che idee simili diventino sempre più frequenti e che l’industria degli anime possa in breve diventare più sostenibile e attenta ai diritti dei suoi impiegati.