1999 – Firmando classici del calibro di Hang-On, Out Run, Space Harrier e Virtua Fighter, Yu Suzuki aveva trasformato Sega in un colosso dell’industria videoludica: quando sottopose ai suoi mecenati il preventivo dei costi necessari a realizzare l’opera di una vita, questi non poterono pertanto rispondergli picche. Eppure, non si trattava di sola riconoscenza: impegnandosi a stanziare il più grande budget mai impiegato fino ad allora per lo sviluppo di un videogame, i vertici della grande S dimostrarono quanto fosse in realtà sconfinata la fiducia nutrita nei confronti del loro figlio prediletto. E in un mondo più sano, il destino avrebbe senz’altro fatto in modo di ricambiarla.
La tormentata storia di Shenmue iniziò dunque da una gigantesca scommessa col mercato: posta in palio, la leadership dello stesso o un disastro dai connotati irreversibili…

Shenmue sarà anche sinonimo di Dreamcast, ma le origini del progetto risalgono ai primordi dell’era Saturn. Se i limiti tecnici evidenziati dalla console non avessero spinto Suzuki a riconsiderare le proprie strategie, oggi staremmo dunque parlando di un titolo ben diverso e non soltanto in termini estetici. Originariamente concepito quale rilettura ruolistica di Virtua Fighter, il gioco avrebbe dovuto infatti riprenderne timeline narrativa e protagonisti, finendo peraltro col proporre un gameplay privo di tutte le innovazioni proprie della definitiva versione a 128Bit.
Il biennio che separò l’archiviazione del codice Saturn dai primi test su base Dreamcast si rivelò in questo senso cruciale per il destino dell’opera: a quel periodo risalirebbe difatti la decisione di recidere ogni legame col succitato picchiaduro, come pure la scelta di accantonare la tradizionale formula RPG in virtù di un nuovo approccio che fondesse Free Roaming, Quick Time Event e combattimenti in tempo reale in un unico modulo denominato F.R.E.E. (letteralm: Full Reactive Eyes Entertainment, NdR).
Provvisoriamente ribattezzato col nome in codice di Project Berkeley, Shenmue venne rivelato al pubblico mediante un articolato teaser distribuito in bundle con la versione Dreamcast di Virtua Fighter 3 Team Battle, ma per quanto i filmati proposti apparissero già sontuosi e le stesse ambizioni del progetto fin troppo ardite, nessuno avrebbe mai potuto immaginare l’effettiva portata del lavoro realizzato dal team AM2. Quando, oltre un anno dopo, il gioco giunse sugli scaffali dei negozi, mezzo mondo si ritrovò difatti a contemplare un kolossal come pochi se n’erano visti prima: più che un semplice videogame, un solenne atto d’amore nei confronti della cultura pop giapponese, in cui la pittoresca epica dei “karate movie” di un tempo si faceva prima romanzo interattivo e quindi riflesso dell’intelaiatura sociale del luogo. Tra le pieghe della storia di sangue e onore che vedeva il giovane Ryo sfidare i crudeli signori della malavita asiatica pur di vendicare la morte del padre, sarebbe stato difatti possibile intravedere anche gli usi, i costumi, i valori e le contraddizioni caratterizzanti la vita nella provincia giapponese degli ann’80, nonché dettagli che avevano segnato la stessa giovinezza del suo autore. Difficile d’altronde pensare che, dietro la minuziosa ricostruzione della cittadina di Yokosuka, l’accorta interpretazione della sua quotidianità e la stessa raffigurazione dei suoi abitanti, non si celassero ricordi e sensazioni provenienti dal bagaglio personale di Suzuki.
Si può in tal senso affermare che, al di là di ogni pregio attribuibile al gameplay, alle brillanti soluzioni dinamiche implementate per fluidificarlo e persino alla sontuosità del comparto grafico, Shenmue trovasse la sua dote principale nella capacità di coinvolgere l’utente fino a convincerlo che bastasse prendere una bibita al distributore, fare una semplice telefonata o andare a lavoro giù al porto, per diventare parte integrante del suo mondo. Sebbene non ci sia quasi nessuno disposto ad ammetterlo, Shenmue non venne accolto come il capolavoro di cui ognuno si definisce pio cultore. Oltre a chi si limitò a valutarlo soltanto in relazione al futuro lancio della PS2 con espressioni del tipo “Se il Dreamcast riesce a fare tutto questo, figuriamoci cosa sarà in grado di fare la nuova Playstation!”, non mancarono ad esempio le critiche di chi puntava il dito contro la relativa longevità dell’avventura, l’obsolescenza dei Quick Time Event e la generale futilità delle opportunità di interazione col mondo circostante.

A conferma di tutto ciò, potremmo rispolverare diversi articoli dell’epoca che gli attribuirono meri connotati da “demo tecnica” o rievocare il colpevole disinteresse di tutte quelle testate che, in barba ai miracoli realizzati dal team AM2, preferirono dedicare più attenzione all’edizione PS One di Final Fantasy IX. Per avere un’idea più precisa dell’atteggiamento tenuto dai media nei confronti dell’opera di Suzuki, e conseguentemente di Sega e Dreamcast stessi, basterà tuttavia ricordare i commenti che seguirono al lancio del suo strepitoso sequel. Praticamente inattaccabile, il gigantesco Shenmue II avrebbe sì fatto incetta di elogi, voti stratosferici e riconoscimenti di vario tipo, ma non si sarebbe comunque risparmiato una sottile contro-campagna mediatica alimentata da chi lo inquadrò come il canto del cigno di una console già morta o come un prodotto arrivato sul mercato fuori tempo massimo. Che Sega avesse già l’acqua alla gola e la carriera del Dreamcast fosse in procinto di giungere al capolinea non era certo un mistero, ma nessuno riuscirà mai a toglierci dalla testa che questa particolare accoglienza abbia finito per smorzare l’entusiasmo che avrebbe potuto favorirgli risultati commerciali più eclatanti…

Del tardivo ritorno in scena del brand, con i relativi dubbi legati alla sua concretizzazione, abbiamo già discusso in apertura di rubrica, meglio pertanto congedarci da questo amarcord spendendo due parole sul brand che ha saputo davvero raccogliere l’ eredità concettuale dell’opera originaria: è infatti parere di chi vi scrive che una buona parte del cuore di Shenmue abbia continuato a battere nel petto di Yakuza e che gli esponenti di questa serie costituiscano l’esempio più lampante di come sarebbe potuto evolvere il suo concept se le cose non fossero precipitate nel modo in cui sappiamo.
VIRTUA FIGHTING
E’ parere quanto mai diffuso che il fiore all’occhiello dell’intera produzione fosse costituito dal sistema di combattimento in tempo reale adibito allo sviluppo degli scontri tra Ryo e i suoi eventuali avversari. Versione leggermente ridimensionata del modulo utilizzato da Suzuki nella pluripremiata serie di Virtua Figther, quest’ultimo ne ereditava senz’altro la matrice tattica che, unita ad un ventaglio di colpi e manovre difensive particolarmente ampio, avrebbe garantito un’esperienza di gioco profonda ed appagante. La sequenza finale del gioco, in cui Ryo si ritrovava a sgominare una banda di teppisti costituita da ben 70 individui non costituì soltanto l’apice dell’intera produzione, ma anche una romantica suggestione: ecco come avrebbe potuto essere un ipotetico Virtua Fighter a scorrimento!
UN GIRO IN SALA
Bighellonando per le strade di Yokosuka, Ryo avrebbe potuto fare anche visita alla propria sala giochi di fiducia, al cui interno brillavano i case di classici Sega quali Hang-On e Space Harrier. Interagendo con le postazioni, sarebbe stato ovviamente possibile giocare alle rispettive versione originale da sala, emulate ad hoc giusto per l’occasione. Tra le altre attività di intrattenimento accessibili in sala, l’immancabile postazione Freccette e due diversi Coin-Op marziali a base di Quick Time Event, grazie ai quali il giovane Hazuki avrebbe potuto affinare i propri riflessi.
IL PRIMO AMORE
Un kolossal quale Shenmue non poteva dirsi completo senza una sotto-trama sentimentale: ben lungi dal proporre ammiccamenti erotici di sorta, la relazione tra Ryo e la coetanea Nozomi Harasaki si sarebbe risolta in una manciata di pudici incontri a base di sguardi impacciati e frasi non dette. Questo particolare approccio stilistico avrebbe riflesso le classiche dinamiche dei primi amori adolescenziali, rivelandosi molto più coinvolgente di tante altre Love Story dai tratti iperbolici. Culmine emotivo dell’intera storyline, la sequenza in cui Ryo riporta a casa Nozomi in sella alla propria moto, dopo una serata piuttosto turbolenta: ad impreziosire il tutto le note di “Harasaki Love Song”, ballad sentimentale cantata dalla idol dell’epoca, Ayumi Hamasaki.