Iron Harvest Recensione: cuori infranti e ingranaggi arrugginiti

Se la beta dello scorso maggio mi aveva colpito tutto sommato in positivo, lasciandomi qualche ragionevole dubbio sulla consistenza di quanto provato e sul modo in cui le vicende delle tre fazioni e dei relativi protagonisti si sarebbero incrociate sul campo di battaglia, è giunto finalmente il giorno in cui posso saggiare con mano la completezza della campagna di Iron Harvest e la qualità del lavoro svolto da King Art Games, meritevoli anzitutto di elogio per il loro contributo verso un genere che non sta più ricevendo troppe attenzioni dalle software house. Faccio un brevissimo passo indietro per ricordarvi che la produzione degli autori di The Book of Unwritten Tales e The Raven è ambientata in un 1920 alternativo (chiamato, non a caso, 1920+), un mondo che ha avuto origine da una serie di dipinti dell’artista polacco Jakub Różalski, il quale ha voluto immaginare la Grande Guerra combattuta a bordo di giganteschi mech: la popolarità della sua visione artistica ha coadiuvato la nascita di Scythe, un popolare gioco da tavolo ambientato nello stesso universo, e il successo di quest’ultimo ha portato a sua volta alla creazione di Iron Harvest, un gioco di strategia in tempo reale che è stato finanziato con collettivo entusiasmo via Kickstarter all’inizio del 2018.

Il microcosmo retrofuturistico di Iron Harvest è composto da un nutrito gruppo di consorterie che, cinque anni dopo il conflitto, tentano di raccattare qualche scampolo di civiltà in mezzo all’oceano di cadaveri e macerie che i potenti mezzi meccanizzati, chiamati automacchine, si sono lasciati alle spalle, ma la nostra storia si concentra sulle traversie di un manipolo di protagonisti appartenenti alle tre fazioni principali, ovvero la Repubblica di Polania, l’Impero Sassone e l’Unione Rusviet (i Regni Nordici e il Khanato di Crimea, presenti nel gioco da tavolo, qui non sono interpretabili), ciascuno accompagnato da uno specifico compagno animale con il quale condividono un profondo legame spirituale. La prima campagna, che ci cala nei panni della giovane Anna e del suo orsetto Wojtek, funge praticamente da lungo tutorial e ci consente di apprendere i rudimenti del gioco mentre seguiamo la sua ascesa da tragica vittima degli eventi dopo l’invasione del suo villaggio da parte dei Rusviet a riluttante eroina della resistenza.

Iron Harvest

Iron Harvest: dissero che la guerra sarebbe stata un’avventura

Essendo dotati di nome e cognome, è facile immaginare che gli eroi così schierati possiedano un ruolo più importante delle altre unità nel corso delle missioni: Anna è un’abile tiratrice scelta addestrata nell’utilizzo del fucile dal fratello, prima che quest’ultimo venisse arruolato nella Grande Guerra. E’ particolarmente ferrata nel colpire la fanteria nemica da lontano e può anche sfruttare un’abilità speciale che le permette di ferire più unità con un singolo colpo, trapassandole da parte a parte in linea retta. Il fedele ma brutale compagno ursino che la segue non è certo da meno, perché può essere spronato in carica per avventarsi sui nemici e costringerli in mischia. Anche Wojtek ha un suo attacco speciale, una poderosa zampata in grado di spingere a terra gli avversari. L’altro eroe cardine di questa fazione è lo zio di Anna, Lech, comandante dei partigiani polaniani e fautore della guerriglia mossa contro gli occupanti di Rusviet. Lech pilota un mostruoso e sgangherato robot dalle fattezze simili a quelle di un gorilla, con braccia enormi capaci di infliggere gravi danni ai mech nemici e di catapultare via la fanteria a ogni colpo. Il suo equipaggiamento bellico include anche un lanciagranate a corto raggio.

La campagna polaniana svolge un ottimo lavoro introduttivo che aiuta ad apprendere le meccaniche fondamentali di Iron Harvest e presenta una vasta gamma di missioni avvincenti: come in molti altri titoli del genere, primi fra tutti Company of Heroes e Warhammer 40.000: Dawn of War, ai quali King Art Games sembra essersi ispirata in particolar modo, ci sono incarichi nei quali bisogna creare una base e un esercito da zero e altri in cui è necessario completare una serie di obiettivi con una selezione limitata di truppe. Questi ultimi si focalizzano sulla raccolta di potenziamenti sparsi per ogni mappa, che forniscono cure mediche altrimenti inaccessibili oppure qualche dotazione aggiuntiva che si adatta meglio al mandato attualmente in corso rispetto a quello selezionato durante la fase preparatoria. L’ambientazione e la narrativa sono molto intriganti, ma del resto lo erano già al tempo del loro adattamento da tavolo, e questa trasposizione digitale ne ha mantenuto intatto lo spirito. Tuttavia, un dettaglio che potrebbe far storcere il naso, o che quantomeno l’ha fatto storcere a me, è la qualità dei dialoghi e dell’interpretazione che i doppiatori infondono negli stessi: per quanto sia chiaro che il budget a disposizione fosse comunque modesto, le conversazioni fra interpreti di madrelingua tedesca che tentano di parlare un inglese appesantito da accenti russi o britannici suonano a volte quasi grottesche. La colonna sonora invece è semplicemente incantevole: i compositori Adam Skorupa, noto per aver lavorato sui primi due capitoli di The Witcher, e Michal Cielecki, che si è occupato dei remake di Shadow Warrior, hanno scelto di massimizzare l’immersività del giocatore integrando una moltitudine di cori e strumenti tradizionali nei brani per infondere una nota caratteristica a ciascuna fazione, spaziando dalle raffinate melodie della balalaika russa alla musica popolare polacca.

Iron Harvest

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Dopo tutte queste buone premesse, è tempo di passare in rassegna gli aspetti negativi: purtroppo, anche nella sua versione definitiva, Iron Harvest mostra il fianco alle critiche con diversi elementi che non hanno beneficiato delle dovute attenzioni in fase di sviluppo, a cominciare dall’intelligenza artificiale delle unità che non controlliamo direttamente e dagli algoritmi di ricerca del percorso che, sebbene marginalmente migliorati rispetto alle versioni dimostrative, risultano ancora in fase a dir poco embrionale. Soldati e automacchine hanno la fastidiosissima abitudine di restare incastrati sul terreno e fra di loro, mentre a volte gli ostacoli sembrano privi di consistenza tanta è la facilità con cui vengono oltrepassati: uno degli esempi più eclatanti lo vedremo in una delle primissime missioni da svolgere per la fazione di Polania, nella quale dovremo scortare un treno “fantasma” che non fornisce alcun tipo di occultamento né di protezione, dato che chiunque sembra in grado di passarci attraverso senza il benché minimo problema. La fanteria ha inoltre la sgradevole tendenza a sparare poche raffiche di carabina per poi ingaggiare i nemici corpo a corpo, senza ricevere alcuna indicazione da parte nostra, comportamento mutuato anche dagli avversari che sembrano sempre desiderosi di dar vita a zuffe a colpi di calci di fucili invece di vomitarsi addosso tonnellate di piombo. Anche il bilanciamento tra potenza e gittata delle varie armi da fuoco è abbastanza discutibile, dato che è quasi impossibile ridurre le distanze con i tiratori ed evitare di finire crivellati di colpi se siamo equipaggiati di mortai a corto raggio, indipendentemente dalla potenza di questi ultimi. Per questo motivo, la strategia sulla quale ripiegheremo più spesso sarà il “mucchio selvaggio” di soldati da far avanzare verso le postazioni rivali perché, a causa della mancanza di specifiche contromisure nel gioco, la potenza dei gruppi più numerosi di fanti è sufficiente ad aver ragione di qualsivoglia offensiva. Viceversa, nelle fasi più avanzate, la disponibilità di mezzi sempre più robusti e aggressivi ridurrà in proporzione l’efficacia delle truppe, fino a renderle quasi insignificanti.

Ad ogni modo, mentre tutte le lacune legate all’intelligenza artificiale e all’equilibrio fra armi e unità sono risolvibili con il rilascio progressivo di opportune patch, il problema più grande di Iron Harvest è che, tolta la presentazione visiva più o meno accattivante, si tratta di un titolo troppo scarno, tanto per usare un eufemismo: non esistono incentivi di alcun tipo per sfruttare strategie diverse dalla ricerca del vantaggio numerico, nemmeno quando saremo al comando di plotoni ben circoscritti, e dubito fortemente che King Art Games possa mettere in campo correzioni di qualsiasi genere senza riscrivere a fondo il codice. Gli alberi di abilità sono composti perlopiù da passive che incrementano i bonus alle caratteristiche e scarsissime manciate di capacità attive dai tempi di recupero interminabili, con quelle più utili a disposizione soltanto di quelle unità che hanno racimolato un bel po’ di livelli. La costruzione delle basi, per quanto possa dirsi presente, si limita a tre tipologie di edifici: il quartier generale, le caserme e le officine, più una pletora di fortificazioni difensive come sacchi di sabbia, bunker e mine, senza la minima possibilità di ricercare nuove tecnologie o migliorare quelle esistenti: l’unico modo per accedere alle truppe più forti è quello di potenziare fino in fondo le ultime due costruzioni, senza nemmeno la necessità di scegliere tra più tipologie perché tutti quanti producono le medesime unità. Per concludere, malgrado le performance mi avessero fatto ben sperare durante le prime missioni, quando il numero di contendenti sul campo di battaglia inizierà a farsi rilevante potremo assistere a rallentamenti significativi, e questo senza notare un incremento di esplosioni, effetti particellari, distruzione degli scenari o altro, segno che anche in questo dipartimento è mancato un controllo qualitativo con proporzionale ottimizzazione.

Sarò dolorosamente onesto: per quanto adori il boardgame, questa conversione videoludica dell’universo di Scythe non mi ha convinto. Sono troppe le lacune, grandi e piccole, annidate nella struttura stessa del gioco, ed in questo stato mi è davvero difficile raccomandare Iron Harvest a chiunque non sia un avido consumatore di RTS, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo con cui mettere alla prova le proprie doti di stratega: anche in questo caso, tuttavia, è bene mantenere molto basse le attese, perché King Art Games non è purtroppo riuscita a confezionare un prodotto che riesca a distinguersi dalla massa. Sia chiaro, non è tutto da buttare, ma non ci sono nemmeno aspetti degni di nota al di là dell’ambientazione estremamente originale: soltanto voi potete sapere se può bastarvi come stimolo per motivare l’acquisto del titolo, ma per quanto mi riguarda è davvero troppo, troppo poco.

Voto: 5.8

Gioca da quando ha messo per la prima volta gli occhi sul suo Commodore 64 e da allora fa poco altro, nonostante porti avanti un lavoro di facciata per procurarsi il cibo. Per lui i giochi si dividono in due grandi categorie: belli e brutti. Prima che iniziasse a sfogliare le riviste del settore erano tutti belli, in realtà, poi gli è stato insegnato che non poteva divertirsi anche con certe ciofeche invereconde. A quel punto, ha smesso di leggere.