Mò Vi Mento Lira di Achille Recensione

Mò Vi Mento

Mò Vi Mento | Achille Alfresco ha fondato un partito, che da il titolo al film, con l’intenzione di far diventare la bugia esplicita un manifesto politico. Si aggira per i paesini della Campania alla ricerca di voti e pareri favorevoli, snocciolando una serie di fesserie che propina per promesse agli elettori ed ostentando la sicurezza tipica di chi non ha nulla da perdere. Intorno a lui una serie di loschi figuri, giochi di corna e tradimenti, sindaci in completo bianco (Andrea Roncato) ed inquietanti cinesi dall’aspetto misterioso. Insomma, il Golfo di Napoli in Mò Vi Mento è un meltin’ pot in cui si incontrano nuove etnie ed antiche, italiche, attitudini da mariuoli. Sullo sfondo, un pericoloso ritorno: quello della Lira. 

Achille Alfresco ed il candidato sindaco

Mò Vi Mento: satira non completamente consapevole

Quando i due registi Stefania Capobianco e Francesco Gagliardi hanno deciso di tradurre in immagini la sceneggiatura firmata assieme a Francesco Scotto e Lorenzo De Luca, sicuramente avranno ridato un’occhiata a due successi recenti del nostro cinema come Qualunquemente e Benvenuto Presidente!. In particolar modo il primo film, potrebbe aver tratto non pochi spunti agli autori di Mò Vi Mento, vista l’intenzione di raccontare una politica italiana sempre più falsa e meschina. Achille Alfresco, difatti, somiglia non poco a quel Cetto La Qualunque che prometteva chiù pilu pe’ tutti.  Ciò che però manca al protagonista di Mò Vi Mento (interpretato da Daniele Monterosi) è quella matrice surreale che nel personaggio di Albanese riusciva a sbugiardare l’Italia contemporanea. Non che i quattro sceneggiatori non ci abbiano provato ad imprimere al film una coloritura da Teatro dell’Assurdo. Il fatto è che però tutti i buoni propositi inizialmente lanciati in fase di presentazione dei personaggi, con lo scorrere dei minuti, si perdono per strada, vengono sovrastati da ulteriori dettagli aggiunti alla sinossi e non del tutto necessari (se non contraddittori). Allora l’iniziale scodella in cui mixare vecchie e nuove ipocrisie, seconde e terze Repubbliche, capi bastone di ieri e di oggi, diventa più una frittata mal amalgamata, in cui si fatica persino a tenere il conto dei personaggi e dei rispettivi conflitti.

Achille Alfresco ed il candidato sindaco

Il Golfo di Napoli è il vero protagonista della storia

Quei paesini dell’hinterland partenopeo diventano allora i veri protagonisti di Mò Vi Mento. Nel bene e nel male. Perché se da una parte i campi lunghi sul Golfo servono a restituire quell’idea di Italia dei cento campanili, della religiosa appartenenza alle tradizioni, dall’altro scatena più di un dubbio sull’integrità della sceneggiatura. Perché un presidente in campagna elettorale, per un partito che si professa nazionale, dovrebbe racimolare preferenze solo tra i vicoli della provincia napoletana, concedendosi al massimo il lusso di qualche comparsata nelle tv locali? Forse era il caso di estendere la narrazione a degli orizzonti extraterritoriali, per dare una chiave di lettura del fenomeno politico di più ampio respiro. Oppure, per converso, in mancanza di risorse magari sarebbe stato più acuto circoscrivere volutamente l’attività di Achille Alfresco alla sola provincia campana.

Così com’è, Mò Vi Mento resta un lavoro lastricato di buoni propositi, alla cui prova del nove non sembrano però tornare tutti i conti. Talvolta le battute dei protagonisti risultano essere grossolane, svogliate, mal concepite. Ed è un peccato, perché, allo stato attuale delle cose, ci sarebbe un gran bisogno della satira politica tentata dal film. La risata è l’unico anestetico conto campagne elettorali fatte di pancia (o per la pancia), ma in politica come al cinema, se sbagli con le parole poi sono dolori…   

Gianluca la passione per il cinema la scopre a 4 anni, quando decide che il suo supereroe nella vita sarà sempre e solo Fantozzi. 
Poi però di quella passione sembra dimenticarla fin quando, un giorno, decide di vedere uno dietro l’altro La Dolce Vita di Fellini, Accattone di Pasolini e La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Da quel momento non c’è stato verso di farlo smettere di scrivere e parlare di cinema, in radio e su portali online e cartacei. 
Vive a Roma perché più che una città gli sembra un immenso set su cui sono stati girati chilometri e chilometri di pellicola. 
Odia le stampanti.