Ritorno in Borgogna – Recensione

L’inizio dell’autunno è per la maggior parte di noi il rientro a un ufficio o ad una stanza. Per gli abitanti delle campagne è il ritorno a un rifugio dal freddo. Per tutti, comunque, è la ripresa di un ritmo più lento. I colori dell’azzurro e la luce viva del verde si spogliano in atmosfere gialle e marroni e i sapori del mare affogano progressivamente in languidi e corposi vini brulé. È questo lo sfondo che immagino dietro alle parole di Cédric Klapisch sulla scelta del tema del suo Ritorno in Borgogna (in uscita nelle sale italiane il 19 Ottobre): «sono tornato [nella vigna del collaboratore creativo Jean-Marc Roulot] per osservare il raccolto, ma, a differenza dell’anno precedente, il tempo era grigio, aveva piovuto molto e i grappoli erano molto meno belli. Potevo vedere chiaramente come il processo di vinificazione fosse legato alle sfumature del tempo». Le stagioni scandiscono le riunioni familiari, mai come di questi tempi per noi è così: fratelli che stanno in costume da bagno in Australia e sorelle che vivono nei cappotti di Londra si spogliano nelle stesse vacanze estive e si coprono negli stessi Natali della casa d’origine, dai genitori.

A volte, come in Ritorno in Borgogna, a riunirci è la perdita di qualcuno. Dopo tanto tempo Jean, Juliette e Jérémie (Pio Marmaï, Ana Girardot e François Civil) si incontrano in occasione della morte del loro padre. Il pretesto narrativo è l’indivisibilità dell’eredità (la tenuta con la sua secolare vigna) e le tasse di successione che i tre dovranno pagare. Ma è subito chiaro che questo da solo non giustificherà il tempo che i fratelli passeranno insieme. Fra loro e individualmente hanno bisogno di un anno di tempo: per elaborare il lutto, per ritrovarsi, per imparare a farsi ascoltare, per trovare il momento di parlare e soprattutto per Jean di placare il suo animo e superare infantili rancori. La sua storia di precoce abbandono della casa d’origine e del suo rapporto con il padre che aveva e che è diventato s’intreccia con quella di Juliette che deve imparare a farsi forza da sé e con quella di Jérémie, probabilmente il più sensibile fra i tre, che sta crescendo.

In Ritorno in Borgogna tempo, sentimenti e vino non sono scindibili. Un anno è un’annata più o meno fortunata, più o meno faticosa; una festa è il termine della vendemmia, un vino è la personalità di qualcuno (Juliette assaggiando il vino fatto dal nonno: «in effetti era più romantico, più idealista») e il modo di assaggiare (sputare o bere) è una scelta di stile. Il vino è il cuore dell’assoluzione e della dissoluzione delle cose, ma è vino autentico, non ci sono grandi strade di città per Cédric stavolta (regista di scenari metropolitani, come in Rompicapo a New York) e soprattutto non ci sono grandi drammi con conseguenti nevrosi, nel vino non si affogano i dolori, al più si méscono sapientemente nella sua ilare serietà. Il vino si trova nella scenografia, nel plot e nella metastoria in forma concettuale, nella biografia del regista, nello studio di un intero anno (il film è stato girato nei giorni più favorevoli delle quattro stagioni, per rispettarne le naturali sfumature). A pensarci bene, il vino si presta a un’estetica molto complessa che intuitivamente raccoglie il tempo, la memoria, gli affetti e la malinconia della vita di campagna. La domanda rimane questa: avranno ceduto alla malinconia?

Se temete (come temevo io) che un film francese sia già per antonomasia propenso alle lungaggini vi rassicuro subito: non solo ci sono spazi di autentico spasso, l’attenzione alla materialità dei prodotti naturali colma spesso i punti di trama più critici. Certo, poi dipenderà dal grado di sensibilità a questo tipo di estetica di ognuno di noi. Ma con le parole del giovane e saggio Jérémie: «insomma: non possiamo avere tutti gli stessi gusti!».