Cursed Castilla (Maldita Castilla EX) – Recensione

Il videogioco è un mezzo potentissimo. Un mezzo talmente potente da far sembrare prodotti del 2016 come appartenenti alla generazione d’oro dei cabinati da sala. Erano gli anni Ottanta, un’epoca dove “finire un gioco” significava veramente o un’abilità fuori dal comune o un eccidio di monetine. Tale è lo spirito di Cursed Castilla, videogioco indie spagnolo di cui ci accingiamo a parlare. Un gioco che a una prima occhiata potrebbe apparire solo come un raggruppamento di altri videogiochi ben più celebri e attempati. Stereotipo che, ve lo diciamo subito, va sfatato perché il titolo Abylight non è un mero clone dei suoi maestri spirituali, ma un prodotto compiuto e ispirato.

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Immergiamoci con un po’ di storia. Nel 2012 un tenace sviluppatore indie spagnolo, Juan Antonio Becerra detto Locomalito, pubblicò gratuitamente sul suo sito un videogioco intitolato Maldita Castilla. Scritto insieme al bravo compositore Gryzor87, questo esplicito tributo agli arcade anni ottanta ha attirato l’attenzione di Abylight, studio di Barcellona che ne ha cambiato il titolo in Cursed Castilla  e l’ha ripubblicato (ampliato, riveduto e corretto) ad agosto 2016 su Xbox One. L’11 gennaio è arrivato anche su PlayStation 4, occasione che abbiamo colto per questa recensione.

Il re incarica i quattro cavalieri.
Il re incarica i quattro cavalieri.

Un regno da salvare

L’anno è il 1081, in pieno medioevo. Le lacrime di una strega sono state usate come mezzo dalle forze oscure per invadere il regno di Tolomera. Solo quattro cavalieri, in missione per conto del loro re, si ergono contro la minaccia. Il giocatore impersonerà il loro leader Don Ramiro, attraverso otto livelli a scorrimento 2D. Questa classica missione sarà dominata da un gameplay altrettanto tradizionale. Bastano infatti due pulsanti (attacco e salto) più la levetta per partire all’avventura. Don Ramiro si muove e attacca come l’Arthur di Ghosts ‘n Goblins, ed esattamente come lui si scontra con una difficoltà impegnativa, in cui ogni errore si paga con la morte. Se questo spaeserà i giocatori “giovani”, di contro farà sentire a casa quelli attempati, che subito si adatteranno alla danza di attacchi e salti al pixel coreografata da Locomalito.

[quotedx] Bastano i due pulsanti di attacco e salto per partire all’avventura [/quotedx]

Il gioco deve comunque la maggior parte del suo fascino all’ambientazione, che risulta essere la vera protagonista. Partendo da un opprimente (e persistente) nero inchiostro, lo sviluppatore spagnolo dipinge una landa cupa e malinconica, piena di aberrazioni. Tale contesto viene portato in vita da una pixel art grezza ma efficace, che racchiude il carisma in pochi fotogrammi. Un disegno che non si risparmia anche immagini di stampo realmente horror. Ma non è un gioco studiato per far provare terrore o disgusto. Con costanza e dedizione le routine dei mostri e dei boss divengono familiari, e Don Ramiro è sempre pronto a rialzarsi a ogni Game Over. Piuttosto, il gioco cerca accessibilità attraverso il salvataggio automatico all’inizio di ogni livello. L’avventura diviene quindi diluibile in più sessioni, e permette di automigliorarsi. Sempre in questa prospettiva vi sono i numerosissimi segreti nascosti nei livelli: fidatevi se vi diciamo che il trovarli o meno ha ripercussioni pesanti sull’avventura.

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Il primo mini-boss del gioco, un classico cavaliere senza testa.

Medioevo al pixel

Alla fine, Cursed Castilla è tutto qui: un’odissea lacerante dove ad ogni morte si impara qualcosa, dove non c’è bisogno di una trama elaborata per andare avanti ma solo l’idea di voler tenere alto un principio. Oltre all’horror e all’arcade, il titolo Abylight è infatti un coacervo di riferimenti alla mitologia medievale spagnola e alle gesta cavalleresche. Una natura se vogliamo minimalista e criptica, che si esprime con il gameplay e riduce all’osso i dialoghi. Il tutto risulta intrigante anche grazie alla colonna sonora chiptune. La musica svolge il suo lavoro veramente bene, rimanendo impressa nella memoria senza tuttavia venire mai a noia.

[quotedx] Il titolo è un coacervo di riferimenti alla mitologia medioevale spagnola [/quotedx]

Poco sopra il termine “danza” non era utilizzato a caso: il sistema a checkpoint vi costringerà a ripetere molte volte le sezioni, finché non avrete incontrato tutte le minacce e capito come affrontarle. Stesso dicasi per i combattimenti con numerosi boss e miniboss: ognuno di loro ha dei pattern unici e delle precise finestre di vulnerabilità, che andranno imparate per prevalere. Bastano tre colpi per perdere una vita, e una volta esaurite quelle a disposizione (tre) si può continuare al costo dell’azzeramento del punteggio. Una sanzione apparentemente innocua, se non fosse che usare troppi “Continue” influenza negativamente il finale.

Il Crazy Quixote, uno dei numerosi boss
Il Crazy Quixote, uno dei numerosi boss

Ed è proprio in questo “assolutismo” che vi sono i difetti di questo fascinoso indie dal cuore di pietra. La grafica alterna numerose finezze a dettagli un po’ trascurati (come le scarne scritte per il game over). Non mancano poi momenti in cui il gioco pare fin troppo ostile al giocatore, facendo apparire certe sequenze o combattimenti come casuali. Ciò è particolarmente vero durante certi boss, che riversano su Don Ramiro una quantità di colpi realmente spropositata. Abbiamo inoltre notato ambientazioni e combattimenti meno ispirati di altri, in cui si affaccia in maniera fastidiosa lo spettro dello stereotipo. Data poi l’importanza del punteggio (anche a fini narrativi) sarebbe stata gradita una modalità a due giocatori (magari cooperativa), purtroppo non presente. Presi singolarmente sono tutti difetti minimi, ma insieme impediscono a questo indie di raggiungere l’eccellenza, solamente sfiorata.