The Farewell – Una bugia buona Recensione

The Farewell

Se una bugia possa o meno essere buona è da sempre un dibattito aperto. Tale quesito si ritrova anche al centro del film The Farewell, opera seconda della regista cinese, ma naturalizzata statunitense, Lulu Wang. La pellicola, presentata in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, svela in realtà un tema ben più affascinante: quello della lontananza. Una lontananza che, attraverso la protagonista interpretata da Awkwafina, si esprimerà attraverso una serie di dolorose riflessioni, racchiudendo in esse il valore del lungometraggio.

La storia segue la giovane Billi, newyorkese con aspirazioni artistiche, la quale scopre che alla vecchia nonna Nai Nai è stato diagnosticato un tumore incurabile in fase avanzata. Tornata in Cina, insieme al resto della famiglia, per farle visita, la protagonista si trova a confrontarsi con i parenti, i quali decidono di comune accordo di tenere nascosta la verità per far vivere in serenità all’anziana quei pochi mesi che le rimangono. Tuttavia, più trascorre del tempo con Nai Nai, più la ragazza si ritrova a dubitare se quel che stiano facendo sia giusto.

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Tornare a casa

Il film si apre con Billi, intenta a vivere una vita newyorkese della quale sembra in perfetto controllo. L’equilibrio, inevitabilmente, si spezza nel momento in cui si trova costretta a tornare nella sua terra natia, in quella Cina a cui non fa visita da molto tempo. Il ritorno a casa dà nuova linfa ad una serie di fantasmi mai realmente andati via, e che si manifestano quando  la ragazza si accorge di essere circondata da una luogo e da una popolazione che non le sono più familiari. Silenziose novità come i cambiamenti architettonici avvenuti in un quartiere della propria infanzia, o ancora l’impossibilità di comunicare correttamente in una lingua che appare ora difficile, accentuano la sensazione di inadeguatezza della protagonista, attraverso cui è possibile provare la paura dell’allontanarsi di casa per poi trovarla mutata al proprio ritorno.

Per questo Billi si sente un pesce fuor d’acqua, minata continuamente da eventi per cui non è sente pronta. A circondarla vi è una famiglia che sembra perseguire un una bugia buona, certo, ma pur sempre una bugia. La regista costruisce così una messa in scena dove tutto tende a sottolineare lo stato di confusione della protagonista, letteralmente lost in translation. Dagli ambienti cupi e angusti alla fotografia fredda, dai dialoghi frustranti per il loro evadere la realtà di quanto sta accadendo al ricordo di un’infanzia che ora appare persa per sempre. Impreziosita dall’interpretazione della giovane Awkwafina, che dona sfumature particolarmente struggenti al suo personaggio, The Farewell risulta essere, appunto, un addio non tanto ad una persona quanto ad un periodo della propria vita, con tutto quello che esso ha contenuto.

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Tra lacrime ed estetica

A fronte di tutto ciò, il successo dell’opera è dato dalla delicatezza con cui la regista tratta tali tematiche, parlandone in maniera indiretta e per questo capaci di risuonare con più forza nel cuore dello spettatore. E’ un film particolarmente struggente The Farewell, che riesce tanto a divertire quanto a commuovere. Non mancano infatti momenti di brillante ironia, costruiti per accentuare ancor di più, per contrasto, la frustrazione della protagonista. Eventi che nel loro caos lasciano sempre intravedere quello spiraglio di malinconia generato dalla consapevolezza dell’inevitabile fine anche delle cose più belle.

Se c’è qualcosa che si può rimproverare alla Wang, è probabilmente l’utilizzo di alcuni estetismi, di alcune composizioni o movimenti di macchina che risultano, se non fini a sé stessi, fuori tono rispetto alla narrazione del film. Perché The Farewell è un lungometraggio bello a vedersi anche senza la necessità di particolari invenzioni visive, a tal punto che quando queste si rendono evidenti generano un lieve fastidio.

Ciò che resta, ad ogni modo, è lo struggente racconto di un ritorno indesiderato, che costringe a fare i conti con mancanze e addii, dolorosi da affrontare ma probabilmente inevitabili. Il film diretto da Lulu Wang riesce così ad emozionare con il solo utilizzo di alcune semplici immagini, come il guardare impotente dal finestrino dell’auto che troppo rapidamente si allontana, qualcuno che si teme non si vedrà più. In questa capacità, sta tutto il potenziale espresso dall’opera.

Gianmaria è sempre stato un grande appassionato di cinema e scrittura, tanto da volerne fare la sua professione. Studiando queste materie all'Università decide di fondere le sue passioni nella critica cinematografica e nella scrittura di sceneggiature. Tra i suoi autori preferiti vi sono Spike Jonze, Noah Baumbach e Richard Linklater.