Elvis Recensione: la mitologia pop secondo Baz Luhrmann

Ci sono due nomi con delle personalità ben definite da tenere in considerazione pensando a questo film e, onestamente, non saprei dire chi dei due prenda il sopravvento nei 159 minuti in cui si dipana questa storia. Meglio andare con ordine e iniziare da Elvis: leggenda musicale e culturale, fenomeno sociale, mito del passato, presente, futuro e anche del regista Baz Luhrmann.

“Allo stesso modo in cui Marilyn Monroe non è solo una star del cinema, incarna un tempo, un luogo, una sensibilità, una simbologia, anche Elvis non è un artista comune. In un lampo è passato dall’essere un camionista a diventare l’uomo più famoso del mondo. Inizialmente ottiene notorietà nel sud degli Stati Uniti e, nel giro di un paio d’anni, è ospite di Ed Sullivan, diventando poi il giovane più chiacchierato, più provocatorio, più famoso del mondo e un milionario da un giorno all’altro. Certamente, già prima di Elvis, delle celebrità come Sinatra avevano mandato in delirio le donne, ma la popolarità di Elvis è coincisa con l’emergere di una forza di mercato insaziabile di adolescenti, che si ricollegavano direttamente ai loro idoli attraverso la radio e la televisione. La rapidità del suo successo e della sua ricchezza non aveva precedenti: Elvis era unico, anche se con gli anni ha dichiarato che era molto difficile rimanere al passo con la propria immagine”.

Un quadro restrittivo ma funzionale per mettere a fuoco quello che è stato e perché la sua esistenza ha cambiato radicalmente moltissimi dei meccanismi musicali e commerciali attivi ancora oggi (primo fra tutti la nascita e diffusione del merchandise), in cui molta importanza viene appunto data anche all’immagine di un artista. Caratteristica ben tenuta presente anche nella cinematografia di Baz Luhrmann: un suo film lo si riconosce anche solo dalla fotografia, dal modo in cui musica, suoni e montaggio stordiscono lo spettatore, lo abbagliano per catturarlo superficialmente mentre cercano di raccontargli qualcosa di più. L’incontro sul grande schermo tra Elvis e Luhrmann, dopo tutte queste premesse, capirete anche voi che era inevitabile.

Tutta colpa sua

È il colonnello Tom Parker (Tom Hanks) ad accompagnarci in questo viaggio nella vita di Elvis: proprio lui che ne è stato manager, mentore, a volte anche padre, ma soprattutto “distruttore”. Lui che viene accusato dalla storia di aver portato al limite il suo artista, averlo spremuto all’inverosimile solo per arricchirsi il più possibile. È il suo punto di vista, assolutamente non imparziale e confuso dagli acciacchi della vecchiaia, a raccontarci le complesse dinamiche che ci sono state tra loro nell’arco temporale di vent’anni, dagli esordi alla fama di Presley, che raggiunse un livello di celebrità senza precedenti, sullo sfondo di un panorama culturale in evoluzione, che segna la perdita dell’innocenza in America. Lui, che ha vissuto praticamente il doppio degli anni del suo artista, ormai sulla soglia della fine dei suoi giorni, cerca di ristabilire la sua reputazione, raccontando una personale versione dei fatti, i perché di alcune scelte, il rapporto umano dietro quello commerciale… “Era sia un genio che una canaglia; un rigoroso uomo d’affari, malvagio e intelligente e un po’ taccagno, ma è sicuramente stato pioniere in un genere di show business che non esisteva fino all’arrivo di Elvis Presley. Ha istantaneamente colto le potenzialità di Elvis, la sua unicità, e sapeva che se l’avesse lasciato andare, sicuramente qualcun altro si sarebbe arricchito al posto suo”: così lo racconta Tom Hanks, talmente straordinario in questo ruolo da riuscire a rendere il colonnello più umano, una persona con dei moventi emotivi più che un arrampicatore sociale ed economico. Ogni decisione nella vita del manager di Elvis nascondeva un secondo fine e nulla era mai lasciato al caso, così come quella del regista di affidare proprio a lui la bussola morale e narrativa di questo film: attraverso le parole di Parker veniamo posti davanti alle vite di più uomini che si intrecciano, aspirazioni e sogni infranti compresi. Lui, così come tutto il film, non racconta la storia di Elvis Prisley, il personaggio pubblico idolatrato da tutti, ma le fragilità e responsabilità nascoste dietro il grande show della sua vita. Quella fatta da Luhrmann è una scelta apparentemente azzardata che mette in chiaro, senza doverlo dire a grandi lettere, che questo non è un biopic, non è una biografia per immagini dai fini documentaristici, ma la messa in scena, complessa e vistosa, di una passione, personale e popolare.

Un mix esplosivo

Un ragazzo di diciannove anni come tanti altri che, per un po’ di tempo, ha vissuto in una delle poche case designate ai bianchi in un quartiere nero di Tupelo nel Mississippi. Senza questo particolare forse oggi non avremmo nessun Elvis Presley: è qui che, insieme a un gruppo di amici della zona, ha assorbito la musica proveniente dai jukebox dei bar e dai raduni Pentecostali. Sono queste le influenze che, crescendo, ha fuso insieme alla sua passione per la musica country. È stato questo sound inedito, soprattutto per un ragazzo bianco, a rendere le sue canzoni così popolari tra i giovani e creare quell’effetto Elvis che poi, rimaneggiato dalle capacità di venditore di Parker, è diventato leggenda.  Ogni singolo dettaglio della vita di Elvis grida Baz Luhrmann: non avete sentito il suo nome anche solo pensando a generi musicali che si scontrano e si fondano? Non è questo che il regista ha già fatto con lo score musicale di gran parte dei suoi lavori? Non vi sentite già frastornati e attratti dalla tipica miscela di musica d’epoca e moderna che ci ha sempre regalato? Non ci sarebbe nessun Elvis senza musica, così come non ci sarebbe nessun Luhrmann che, accompagnato dal compositore e produttore Elliot Wheeler e Anton Monsted (da cui già si faceva affiancare ai tempi di Romeo + Juliet), crea questa persistente presenza musicale attraverso la voce di Austin Butler, che interpreta le esibizioni dal vivo del giovane artista, l’iconico cantato di Elvis, usato nell’ultima parte del film, occasionalmente addirittura un mix delle due voci e molti artisti di successo di oggi. C’è sempre qualcosa che si muove da qualche parte sullo schermo, che sia anche solo a livello sonoro, tutto è in costante movimento con lo scopo di farti provare qualcosa di più forte del normale, di schiaffeggiarti con della confusione così altisonante da lasciarti dentro il ricordo di quello che deve aver provato il protagonista durante il caos non calcolato che è stata la sua vita. È un ragionamento che si può fare sulla musica ma che funziona perfettamente con tutte le scelte stilistiche di Luhrmann, non certo un regista dell’essenziale, che gioca con ogni tipo di contrasto, con le diverse tipologie di lenti fotografiche, di filtri cromatici, di montaggi, luci fluorescenti e panneggi dorati per frastornare lo spettatore e portarlo lontanissimo dalla sua quotidianità. Ci si ritrova sopraffatti? Assolutamente. A volte si ha come la sensazione di essersi persi qualcosa per strada? Molto probabilmente. Si rimane impassibili ed esterni alle vicende? Quasi mai.

Il peso della responsabilità

Tom Hanks è una certezza capace di umanizzare anche il più viscido dei personaggi, per quanto non sia un’abitudine della sua carriera. Baz Luhrmann è un regista dallo stile così iconico che, in virtù di esso, può permettersi di azzardare un po’ qualsiasi cosa. Eppure è Austin Butler quello che, alla fine dei conti, deve reggere il peso immenso di questa produzione sulle sue spalle, lui che, nonostante sia in giro da anni, è pressappoco sconosciuto al grande pubblico.

Ho sentito il peso della responsabilità. Ogni giorno ero assalito dall’ansia, perché volevo rendere giustizia al personaggio e alla sua famiglia, omaggiare lui e la sua vita. È stato difficile non sentirsi un bambino con l’abito del padre, come se avessi dovuto indossare scarpe più grandi di me con cui a malapena sarei riuscito a camminare.

Ed Austin Butler che ti fa innamorare ancora di più di Elvis, riuscendone a rappresentare tutte le sfaccettature (fisiche ed emotive), dalle più sproporzionate e appariscenti, a quelle distrutte e intime, passando per una serie di atteggiamenti, espressioni e sensazioni che ti provocano istintivamente un senso di idolatria e isteria. Mai esagerata oltre le richieste, mai una imitazione macchiettistica, mai più personaggio che essere umano, la sua interpretazione riesce a creare un equilibrio necessario e giustissimo in mezzo allo scoppiettamento scenico che lo circonda, regalandoci un personaggio che è molto più complesso di quello che ci si potrebbe aspettare.

Baz Luhrmann ha un modo tutto suo di raccontare una storia avvincente in superficie ma che, al contempo, esplora verità più profonde e risonanti. Quella di Elvis è molto più ricca di quanto si possa immaginare e il regista, con il suo stile inconfondibile e la profonda competenza sia cinematografica che musicale, riesce a portarne in luce gli aspetti più umani, più fragili, pur mostrandoci la grandiosità dell’impatto che questa figura ha avuto nella nostra storia. Un po’ come in molte opere della sua carriera, ci ritroviamo davanti a una valanga di sogni bellissimi e terribili, talmente grandi da creare danni immensi quando si infrangono, di ambizioni così violente da lasciare cicatrici su tutto ciò che toccano. Ed è un discorso che vale per Elvis, per la sua famiglia, per Priscilla, per il colonnello Parker e forse anche per noi, apparentemente al di fuori di tutto questo circo… che altro non è che la società in cui comunque viviamo. Ok, forse imbambolati da tutto quello che avviene sullo schermo rischiamo di perderci qualcosa, distratti da una visione del mondo fin troppo manipolata e indirizzata, che pone sapientemente tante luci, ma anche tantissime ombre. Ok, forse non è tutto oro quel che luccica e non è tutto vero quello che accade, ma Lhurmann è narratore di illusioni, nessuno va a vedere un suo film perché sente la mancanza della realtà.

Voto: 8