Sola al mio matrimonio Recensione

Sola al mio matrimonio

Arriverà nelle sale il prossimo 5 marzo, nella settimana della festa delle donne, il nuovo film della regista Marta Bergman, già conosciuta in passato per realizzazioni documentaristiche ambientate in Romania. Con Sola al mio matrimonio, la filmaker rumena scrive e dirige per la prima volta un’opera di finzione. Ad accompagnarla in questa avventura, Alina Serban, attrice nel suo primo ruolo da protagonista in un lungometraggio. Sarà riuscita l’autrice a confezionare una buona pellicola, che vuol essere fiction romanzata, ma che non tralascia però quelle istanze di realismo che hanno caratterizzato il suo primo periodo filmico? Scopriamolo assieme.

Sola al mio matrimonio

Dal documentario al film di finzione

Pamela (Alina Serban) è una giovane Rom insolente, spontanea e piena di ironia. Non assomiglia a nessun’altra ragazza della sua comunità. Vive con la nonna e la sua piccola bambina, ma sogna la libertà e mondi da esplorare, ben lontani dal luogo in cui abita, disperso in una tundra di neve. Rompendo con le tradizioni che la soffocano, si imbarca alla volta dell’ignoto con tre sole parole di francese nel bagaglio, qualche cianfrusaglia utile a sopravvivere e la speranza di un matrimonio in Belgio che possa cambiare il suo destino e quello di sua figlia.

Le vicende ci portano subito nell’intimo della cultura Rom, con i suoi usi indecifrabili e costumi variegati, facendoci conoscere il cast di co-primari che accompagneranno per l’intera durata della pellicola Pamela. Fin dal principio però, un’eccessiva posatezza della macchina da presa non riesce a donare né spigliatezza né reale intimità con le situazioni che si snodano, una dopo l’altra, nella generale atonia affettiva. I simboli narrativi messi su schermo, ricorrenti, sono da una parte chiari e offrono allo spettatore quel caro senso di “costante ritorno” e crescita della protagonista. D’altra parte però le formule sceneggiative non sono amalgamate assieme con naturalezza e spesso capita che la volontà di voler raccontare qualcosa di allegorico finisca per soffocare il concreto e vero coinvolgimento.

Spezziamo una lancia in favore di Alina Serban, l’attrice principale, che esordisce con una prova lunga, duratura – è lei l’assoluta protagonista della scena – e in grado di riempire lo schermo. A tal proposito consigliamo la visione in lingua originale per poter cogliere le sfumature d’accento, i suoi tentativi di imparare il francese, i serrati dialoghi in romanì. Eccezionale la performance trasformista di Tom Vermier, nel ruolo di Bruno, il marito conosciuto via web, che ha preso ben 25kg per interpretare la parte del fragile, dissociato e alessitimico coniuge della più estroversa Pamela. La loro relazione progredisce senza particolari sorprese, donando però, attraverso un’attenta scrittura, uno sguardo reale sul rapporto di coppia, fatto di compromessi, alti e bassi.

Viorica Tudor nel ruolo della nonna di Pamela è un personaggio forte e riuscito ma che, come gli altri, esce penalizzato da una vicenda complessiva non abbastanza coinvolgente o affascinante. Un gran peccato perché il cast, tra attori sconosciuti e alle prime esperienze, segnati sul volto dalle reali crudezze della strada e della povertà, avrebbero potuto lasciare il segno.

Sola al mio matrimonio

Quella malsana voglia di romanzare…

Probabilmente ciò che ha maggiormente penalizzato il film è stata la volontà di usare più registri stilistici. Se l’opera è permeata principalmente da un realismo schietto, caratterizzato da un montaggio lento con alcune inquadrature a tutto campo dove gli attori si muovono liberamente sul setassistiamo ad altre sequenze dove le luci naturali e i piccoli piani sequenza sono assenti per la volontà di voler inscenare qualcosa di più elaborato, volutamente finzionale e in contrasto con il carattere generale adottato. Il risultato stride e disorienta e va a ledere l’effettiva riuscita di alcune scene dal pathos importante.

Il dramma che vive Pamela e raccontato in Sola al mio matrimonio, d’altro canto, si presenta reale e affatto artificioso. E si snoda verso una naturale risoluzione. Con qualche passo falso qui e lì, qualche linea narrativa secondaria non proprio ben amalgamata, ma sempre con la volontà costante di dipingere un affresco più ampio. Verso questa direzione c’è da lodare la regista: non solo la figura principale, ma tutti i co-primari assisteranno ad una trasformazione e un cambiamento, rivelando la capacità di confezionare un dramma a 360° incentrato su una comunità Rom. Un peccato che non ci sia stato spazio per approfondire gli usi e i costumi del popolo gitano, andando a mostrare alcuni aspetti per lo più di conoscenza comune.

Non ci troviamo quindi a bocciare Sola al mio matrimonio ma neppure a tessere elogi. Dalla sua la regista Marta Bergman è riuscita è raccontare qualcosa di vero e autentico, viscerale e intimo, senza però osare quel poco in più che avrebbe elevato il film dall’essere “una storia delle tante”. Tout court, aspettiamo la filmmaker al prossimo lungometraggio – che ha svelato di essere in produzione – nella speranza che abbia fatto tesoro di questi errori.

Non esisto. E anche se esistessi ignorerei dove sono. Perso nel NET o nel Lifestream, in qualche arcipelago sperduto dell'Alaska, forse nell'Arkham dei Grandi Antichi e, più lontano, tra montagne di D20, alla destra di Padre Ilùvatar, in un sogno b/n. Dove sono, chi sono? Nel dubbio, scrivo.