Mad Max – Recensione

Le dita di una mano sono persino troppe, per elencare tutti i videogiochi che recano il nome di Mad Max. A conti fatti sono appena due, compresa la creatura di Avalanche, e diventano tre se si tiene presente che Outlander, nel 1992, avrebbe dovuto intitolarsi come il secondo e leggendario film della saga, Mad Max: The Road Warrior. Proprio le poche celebrazioni ufficiali, lungo più di 35 anni di storia dell’entertainment, rendono Mad Max una delle icone più imitate e meno direttamente celebrate della storia dei videogiochi. E questo a fronte di migliaia di titoli che ne hanno omaggiato le suggestioni ma difficilmente hanno provato a riassumerne tutti i tratti, al contrario “frazionati” nel mondo di Fallout – con armi, corazze, NPC e ovviamente “Dog” – negli onnipresenti predoni delle wasteland, oppure nelle suggestioni da “apocalisse motorizzata” di una lista infinita di produzioni, da Borderlands e Rage fino alle contaminazioni rogue-like del recentissimo Convoy (tanto per citare gli estremi del firmamento, in termini produttivi e di genere). Per venire al punto, e anche per non perdermi in una sorta di “speciale Mad Max”, vi dico subito che il gioco di Avalanche rende un ottimo servizio alla memoria del personaggio, peraltro senza incedere nei pericolosi tratti del tie-in e concentrandosi, al contrario, sulle caratteristiche di un gameplay vario e aperto. Niente di nuovo sotto il sole, come vedremo fra poco, ma un open world d’azione realizzato da chi conosce perfettamente le regole del genere, ed è felice di applicarle sull’apocalisse prossima ventura.
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FURIA E SPERANZA

Un paio di riferimenti bastano e avanzano per esaurire i punti di contatto con l’opera di Miller: nel gioco sono presenti alcune fazioni del film, come i Cuccioli di Guerra o i Porcospini, e Immortan Joe viene citato come il più potente fra i Signori della Guerra, in riferimento al fatto che il villain del gioco Scabrous Scrotus (si, lo so,  permettetemi di passare oltre) non è un semplice “feudatario” di questa regione delle wasteland, teatro di nuove barbarie, ma il terzo figlio diretto del vecchio e pericolosissimo Joe. Una buona idea, a mio modo di vedere, è stata quella legare il nome di uno dei personaggi, Hope, al tema e al significato di questa parola in Mad Max: Fury Road, senza tuttavia indulgere in ulteriori collegamenti. Gli sviluppatori hanno parlato con Miller all’inizio del processo creativo, ricevendone in cambio preziose indicazioni, ma il lavoro è poi proceduto nel massimo dell’autonomia, al di là del chiaro rimando nel combattimento finale e in altri più piccoli particolari. Questo è Mad Max in chiave Avalanche, nelle cose buone e, a tratti, anche in quelle meno riuscite. All’inizio del gioco troviamo Max a piedi nel deserto, derubato di tutto, con il solo desiderio di ricostruirsi un’auto, la Magnus Opus, che sappia fare il suo mestiere come e meglio della V8 Interceptor, e che magari sia dotata di un motore ancora più potente. Ma le cose, come ormai dovreste sapere, non sono mai così semplici.
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SHADOW OF OUTLANDER

Prima di descrivere le ispirazioni più dirette del gameplay, mi permetto di sottolineare le similitudini tra Mad Max e il citato Outlander nella scelta degli elementi: abbiamo le corse in auto accompagnate dai colpi di fucile, insieme a fasi in cui la ricerca delle risorse assume un peso determinante, e così l’esplorazione di covi e rifugi in mezzo al deserto. Ovviamente, però, al posto dei violenti stacchi del gioco di Mindscape, tra guida in un’abbozzata soggettiva ed escursioni side-scrolling, in questo caso abbiamo una struttura aperta che consente con pochissime eccezioni (gli istanti per entrare nei rifugi fortificati, oppure le cutscene) di spostarsi senza caricamenti sull’enorme mappa di gioco, e di trovare i suddetti elementi in una forma che, per come l’abbiamo trovata, sembra la ricetta di un gourmet di gameplay.[quotedx]Gli sviluppatori hanno parlato con Miller all’inizio del processo creativo, ricevendone in cambio preziose indicazioni[/quotedx]Il free-flow di Batman: Arkham è il chiaro modello per gli scontri a mani nude, accanto a una struttura che ricorda parecchio Shadow of Mordor non tanto nelle soluzioni tecniche, visto che i nemici sono esclusivamente predefiniti, quanto nella presentazione dei personaggi e del loro ruolo: per indebolire il potere di Scrotus, ad esempio, possiamo sfidare una serie di boss nelle rispettive roccaforti, indagandone punti forti e deboli grazie ai sopravvissuti che stazionano nei punti d’osservazione, diversi dagli orchi e dagli informatori di Batman, in quanto amici, ma provvisti di similissime funzioni. In questo caso possono anche indicare le difese di una base, e insieme affidarci quest secondarie di ricerca e scavenging, accanto a quelle principali e facoltative affidate dai “ras” delle varie regioni. Inoltre, quasi come regola degli open world d’azione, anche Mad Max ha i suoi punti panoramici per individuare zone d’interesse e obiettivi, in questo caso sotto la forma di palloni aerostatici che vanno talvolta alimentati o ripuliti dai predoni, prima di solcare il cielo in sequenze molto evocative.

Una simile pioggia di riferimenti può anche preoccupare, in termini di originalità, ma non va presa in un’accezione negativa. Al contrario, l’esempio della mongolfiera è uno dei numerosi e felici adattamenti al nuovo contesto, fra i quali possiamo mettere per certi versi anche le fasi di combattimento, misurate su un registro debitamente violento (PEGI 18, per un fracasso di ragioni) e meno fumettose nella rappresentazione, più vicine a sanguinose risse da bar che non alle azioni di un supereroe. Soprattutto, poi, i temi portanti del background godono della giusta attenzione: Max ha bisogno di cibo e acqua per sostentarsi e riprendersi dalle ferite (similmente a medkit “razionati”), di rottami per gli upgrade, di munizioni e ovviamente di benzina per le auto; tali risorse possono essere rinvenute in qualsiasi ambientazione, in numero mai esagerato, oppure affidate al lavoro delle missioni secondarie, in cui possiamo aumentare la prestanza dei fortini con pompe di benzina, armerie e allevamenti di larve (questa è la post-apocalisse, mica Master Chef) per ripristinare, rispettivamente, i livelli di carburante, cartucciere e salute. Belli alcuni dettagli di contestualizzazione, come le taniche di benzina e le armi che Max può usare per scivolare sui cavi e che tiene strette quando sale su un dislivello, o come i segni sulle piste affidati graficamente alle tracce di sangue e gomma dei pneumatici. Quasi del tutto marginale, invece, la componente shooter: le fasi da cecchino sono legate a una funzione della Magnus Opus, adatta alle lunghissime distanze, e gli scontri ravvicinati necessitano principalmente di rudi cazzotti e qualche sparo ravvicinato, più che di precisione nel tiro.

ODORE DI GOMMA BRUCIATA

Le autovetture ricoprono un ruolo centrale, ovviamente, e fanno eccezione rispetto alle somiglianze sopra descritte, al di là di alcuni dettagli marginali e generici meccanismi (zone della mappa che si sbloccano progressivamente, slow motion per le fasi di mira). Si tratta di un buon sessanta per cento di gameplay, in cui vengono sparate le migliori cartucce in termini di personalità, grafica e puro divertimento, attraverso la progressiva modifica della Magnus Opus e gli spettacolari scontri che possono aver luogo in qualsiasi momento, nelle corse, nella distruzione di convogli, nelle battaglie principali e nei semplici episodi dinamici, legati al costante pattugliamento delle strade da parte dei predoni. Accanto al tradizionale fucile a canne mozze, Max può contare su una sorta di arpione lanciamissili e soprattutto sul rampino, con cui è possibile divellere portiere, corazze delle macchine e agganciare gli occupanti, oppure riservare lo stesso trattamento ai cecchini su torri e alture. Una cosa simile a quanto vedremo in Just Cause 3, insomma, ma perfettamente integrata alle dinamiche di Mad Max.[quotesx] l’esperienza si snoda piacevolmente per un gran numero di ore, nel mio caso più di venti[/quotesx]I pezzi da cambiare nell’officina sono parecchi, da tre a una decina per ognuna delle 18 categorie, e comprendono telai, motori, scarichi, difese e un sacco di altri dettagli tra cui scegliere, anche in termini di estetica del bolide. La tenuta iniziale delle auto è volutamente imperfetta, forse in modo addirittura esagerato, e comunque va a esaltare i benefici che andremo via via a sbloccare, magari nelle nuove sospensioni per rendere più stabile la macchina, o in un impianto Nitro con tre cariche consecutive. La riparazione dell’autovettura è affidata a un meccanico deforme di nome Chum, che si mette al lavoro quando Max scende dall’auto e ha un suo peso specifico nella trama, come commento a ciò che accade nell’azione e in vicende specifiche che lo riguardano. Lo stesso Chum ci introdurrà agli “Arcangeli”, ovvero a specifici assetti della Magnus Opus che possono essere scelti e costruiti lungo la storia, seguendo le indicazioni per i requisiti di sblocco e i rottami necessari. La buona articolazione riguarda anche le altre skill, comprendenti categorie funzionali (mosse speciali, tirapugni più potenti, diversi shotgun) o estetiche (aspetto del personaggio, avambracci corazzati, giacca di pelle etc.), così come gli attributi che possiamo far crescere facendo visita all’asceta Griffa, per migliorare la resistenza, l’uso delle risorse o l’immancabile momento di “Furia”, in cui l’eroe infligge più danni dopo aver caricato l’apposita barra a suon di sganassoni. In tutti i casi, per Max come per la Magnus Opus, i potenziamenti sono affidati in misura paritaria al grado di “Leggenda” (dunque a una crescita di livello che si snoda attraverso le sfide, fino allo status di “Guerriero della Strada”), all’abbassamento dell’influenza di Scrotus sul territorio e al numero di rottami che riusciamo ad accumulare, necessari a costruire molti degli upgrade per macchina ed equipaggiamento.

In nessuno di questi aspetti è possibile trovare gravi magagne, e anzi l’esperienza si snoda piacevolmente per un gran numero di ore, nel mio caso più di venti, con parecchia esplorazione e alcuni boss secondari. Casomai, il gioco mi è apparso troppo schematico nelle caratteristiche di contorno: Mad Max è un personaggio addirittura mitologico, e non so quanto senso abbiano le opzioni estetiche per capelli lunghi, barba più o meno incolta o occhialoni, se queste non hanno alcuna relazione con la trama. Un discorso simile vale per lo standardizzato uso di icone e GPS, o per il metodo fin troppo brutale di chiudere i margini dello scenario, con il “Grande Nulla” che spazza via ogni cosa. Tutti dettagli che indicano non tanto la ricerca dell’immersione, quanto il tentativo di stare perfettamente negli standard degli open world moderni, rispettandone le consuetudini e la facilissima leggibilità. Operazione riuscita, in termini di divertimento, ma in diversi casi ho sentito le potenzialità inespresse di un titolo più deciso e personale, che poteva sfruttare non solo le auto, invero implementate benissimo, ma anche gli elementi ARPG/survival inseriti nel gameplay con piglio superficiale. Le sensazioni sono certamente legate alla grandezza del film, con i suoi dialoghi stringati e il suo sbalorditivo design, ma qualche responsabilità va ascritta anche al protagonista del gioco, che si veste come Mad Max, parla addirittura con accento australiano (la traduzione coinvolge solo i sottotitoli) e tuttavia presenta un’impalpabile differenza dal personaggio originale, ben oltre la faccia di Gibson o Hardy. Vaneggia, vede mostri e dice di essere matto, ma non lo sembra per niente.
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TUTTE LE SFUMATURE DEL DESERTO

Sul fronte della confezione tecnica non c’è molto da eccepire, se non per qualche sporadico bug nella fisica (Max gira letteralmente come una trottola, o schizza via come spinto da una forza misteriosa) e nella caratterizzazione d’ambiente degli interni, meno riuscita rispetto agli scenari del deserto. Effetti volumetrici della polvere, portentose esplosioni, ciclo giorno-notte, dosaggio del motion blur e ombre particolarmente raffinate rendono giustizia all’ispirazione visiva, insieme a spazi aperti caratterizzati in tutti i modi possibili, nei colori predominanti della terra, nelle conformazioni rocciose e nei cumuli di detriti pre-catastrofe intorno a Gas-Town.[quotedx] a mia memoria questo è il primo Mad Max della storia senza una moto[/quotedx]Le versioni PS4 e PC si sono comportate più o meno nello stesso modo, con un minimo di vantaggio per la grandiosa fluidità dell’edizione Windows (70/100 immagini al secondo, su una 780 GTX) e per l’uso di un gamepad a prescindere dalla piattaforma, considerata la mappatura dei tasti e la natura ben poco shooter dell’azione. L’ottimo framerate è il risultato di tanti fattori, che comprendono la conformazione degli scenari, la scarsità di architetture complesse, la risoluzione di alcune trame e il vistoso risparmio di poligoni e animazioni su specifici NPC (grave almeno in un caso, per uno dei personaggi determinanti nell’epilogo); allo stesso tempo, però, il comparto grafico si concentra sulla gran velocità dell’azione e sullo spettacolo pirotecnico, con risultati che danno sostanzialmente ragione ad Avalanche. Proprio la versione Windows ha dato qualche piccolo problema nelle selezioni dei menu (cose poco gravi, basta cliccare un’altra voce per tornare alla normalità), ma non ci sono altri veri grattacapi da sottolineare sul fronte tecnico, in questa edizione come in quella PS4. Riguarda il gioco nel suo complesso, invece, l’assenza di piccoli animali (cane di Chum a parte) o motociclisti, ovviamente più grave nell’ultimo caso. Anzi, a mia memoria questo è il primo Mad Max della storia senza una moto. In compenso ci sono tempeste dinamiche a cui il protagonista dovrebbe sfuggire entrando in un rifugio, e che nemmeno in un caso hanno determinato la mia morte o la distruzione della macchina. Proprio una strana fortuna, anche per uno come Max.

Infine, il gioco di Avalanche cerca di bilanciare l’assenza di altri contenuti con un editor video, meno articolato e comunque simile a quello di GTA V. Con lo strumento è possibile manipolare l’immagine con filtri, impostazioni di camera, effetti di sfocatura e altre funzioni, sia nella forma di singoli scatti che nella registrazione di filmati, meglio se coadiuvati da un amico che fa da regista con un secondo controller, oppure che gioca lasciando a noi la parte creativa. Tra le altre cose, giocando attraverso la modalità video è possibile eliminare qualsiasi icona e indicatore a schermo, oppure ottenere una resa vicina ai toni delle pellicole anni ’80, più piatti e cromaticamente violenti. Sto recuperando gli obiettivi trascurati proprio così, dopo il classico finale free-roaming, con il giallo e il rosso ben sparati sulla faccia.