Winning Eleven: Nascita e Conquiste di un Brand che ha fatto la Storia

Per una generazione e mezza di videogiocatori, Winning Eleven è sinonimo di calcio. Per quegli stessi videogiocatori però, Winning Eleven è anche qualcosa di più: il doppio all’ultimo sangue al rientro da scuola, coi compagni di classe a fare il tifo dal letto a castello; la Master League conquistata alle 4 del mattino con un golasso all’incrocio all’ultimo minuto dell’ultima giornata; i pomeriggi trascorsi a editare interi campionati, fino all’ultimo nome e numero di maglia; il titolo che tutti importavano, quando importare (parallelamente) importava, perchè averlo prima, dell’amico ma anche del resto del mondo, era tutto. Tutto questo è Winning Eleven, una serie che ha rivoluzionato il modo di fare giochi sportivi e che non ha faticato a ritagliarsi un posticino imperituro nel cuore del retrogamer contemporaneo.

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1995 – International Superstar Soccer per Super Nintendo (Super Famicom / SNES): dove tutto ebbe inizio.

Sapientemente centellinata in una trentina di versioni di natura smaccatamente episodica (ma non per questo meno godibile), per regalare ai fan quel tanto che bastava per rimanere assuefatti, senza che l’hype per il capitolo successivo scemasse mai al di sotto dell’isteria generale, per oltre 15 anni Winning Eleven ha rappresentato la forma più pura di godimento per l’appassionato di calcio videoludico. E non a caso. L’epopea della saga Konami nasce nel lontano 1995, sottoprodotto del tentativo di far confluire sotto il coperchietto plasticoso di una Playstation appena approdata sul mercato, la tradizione dei titoli calcistici giapponesi degli anni 90. Un esordio non proprio indimenticabile se vogliamo, ma ci si discostò in fretta dagli scaldabagno ambulanti di WE1, alla ricerca di silhouette meno tarchiate, movimenti più dinoccolati e ben altra sostanza. Se vogliamo, la serie deve molta della sua fortuna allo tsunami creativo che travolse le softco giapponesi dell’epoca, le quali, sfruttando l’esplosione di popolarità goduta dalla neonata J.League, si gettarono a capofitto nello sviluppo di titoli calcistici per le piattaforme più disparate.

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1995 – La copertina della versione giapponese del primo, storico episodio di Winning Eleven mai uscito per Playstation.

Variopinti e audaci come le compagini del campionato nipponico, i nuovi franchise, apparentemente scevri da qualsivoglia influenza stilistica proveniente dalla scuola europea, si susseguivano senza soluzione di continuità sull’onda di vendite generosissime, ed era tutto un fiorire di visuali non convenzionali, soluzioni stilistiche irriverenti e gameplay strampalati. La straordinaria serie KCET fu, de facto, il risultato di un’evoluzione in atto da tempo, prima ancora di divenire Pro Evolution, figlia di in un mercato saturo di offerte similari e immediatamente capace di generare la pressione selettiva necessaria per disfarsi delle cattive idee e focalizzarsi su ciò che il pubblico predilige. Poi, l’idea, brillante, il concept, rivoluzionario e in controtendenza, l’artefice, Shingo “Seabass” Takatsuka, ancora oggi executive producer della serie. Il resto: storia. Laddove precursori e concorrenti ponevano l’accento su un approccio di tipo arcade (basti pensare all’apice del sottogenere, ovvero il frenetico Excite Stage di Epoch), WE decide di rallentare, di lasciare che il giocatore rifletta, ponderi, imbastisca reti di passaggi mentre cerca uno spiraglio, contempli, elabori. Non più un flipper a la Virtua Striker ma un susseguirsi di fasi di studio e folate offensive, tikitaka e contropiede fulminei, sgroppate di Miranda sulla fascia e uno-due chirurgici tra Espinas e Castolo a tagliare come il burro una difesa troppo sorniona.

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Shingo “Seabass” Takatsuka, la mente dietro il successo di Winning Eleven.

L1+X, dai e vai, come fosse ieri. Il ritmo si abbassa, il giocatore ha ora la facoltà di decidere dove mandare il pallone e, soprattutto, come mandarcelo, anche grazie ad un sistema di controllo decisamente intuitivo, che si specializza progressivamente facendo buon uso della tecnologia a disposizione, senza però diventare mai troppo intricato. Gettarsi a capofitto nell’uno contro uno scellerato equivale a perdere la sfera, occorre pianificare, sfruttare il campo nella sua interezza, lavorare di yomi in caso di sfide multiplayer: i match diventano partite di scacchi alla velocità del suono, quello dei cori dei tifosi sugli spalti. I giocatori, una volta anonimi ammassi di pixel e poligoni, prendono vita grazie ad un impianto di gioco stats-based: ogni omino è caratterizzato da un DNA fatto di valori (dalla manciata di WE3 alle dozzine di JLWE2010CC, grazie all’ausilio di database forniti da compagnie specializzate nell’elaborazione di dati sportivi, quali Stats Stadium e OPTA) che ne contestualizzano l’abilità.Si è ora costretti a soppesare attentamente le proprie scelte, perché inizializzare un filtrante con un mediano di copertura, piuttosto che col fantasista sortirà effetti ben diversi. E il filtrante si sa, è vita.

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1998 – Winning Eleven 3 Final Version: a tutt’oggi, uno degli episodi più coinvolgenti dell’intera serie. In europa il titolo sarebbe arrivato col nome di International Superstar Soccer Pro ’98 (ISS PRO ’98).

La profondità di gioco di colpo acquisisce una nuova dimensione, stratificandosi, si cominciano a gettare le basi di quel tipo di gameplay che siamo soliti associare ai giochi calcistici moderni, il mito di WE prende forma. Forse per la prima volta dai tempi di Sensible Soccer, un videogioco è in grado di riproporre in maniera convincente il fluire di una vera partita di pallone e ragionare in termini calcistici diviene indispensabile, se si vuole avere qualche chance di portare a casa il risultato. E i videogiocatori esplodono in un’esultanza che dura un decennio. Il successo della serie non conosce confini, la concorrenza è in ginocchio, WE è il re dei titoli sportivi. Al di là della qualità intrinseca del gameplay, WE si è sempre contraddistinto per la quantità debordante di feature accattivanti (In taluni casi borderline sperimentali, come il simulatore di totocalcio di JLWE9AC) ed elementi di contorno mirati a cementare l’attaccamento sentimentale del giocatore prima e dell’appassionato dopo (e del fanatico, più tardi). La cura del dettaglio e la ricchezza di particolari hanno rappresentato un trademark della serie, contribuendo all’immersione del giocatore e mantenendone sospesa l’incredulità, in un’era durante la quale il fotorealismo non era esattamente a portata di mano e bisognava, dunque, arrangiarsi. Era facile imbattersi in animazioni e “callname” personalizzati per i giocatori di spicco, persino nei primissimi capitoli della serie; leggendario il caracollare di Rui Ramos e chi si dimentica il “CHUSKE” durante un calcio di punizione di Nakamura.

La serie ci deliziava puntualmente con filmati di presentazione sontuosi (indimenticabile quello di WE6 sulle note di “We Will Rock You” dei Queen), sovente interpretati da testimonial di grido  o costellati da clip provenienti dal calcio reale (come nel caso del filone J.League) e montati ad arte su soundtrack esaltanti. Un product placement quasi pionieristico per il genere, tuttavia sdoganato con eleganza, coadiuvava le licenze ufficiali per dare la sensazione al giocatore di trovarsi davvero lì.Modalità extra come l’onnipresente editor multifunzione, o l’immancabile Training Mode, coi suoi coni da dribblare e i bersagli da trafiggere con un calcio di punizione a giro ben piazzato, andavano a completare un pacchetto in grado di tenere occupato il giocatore fino alla successiva release, se non oltre. Se c’è un elemento di contorno che ha contribuito a sancire il successo della serie tuttavia, è la telecronaca in tempo reale. Il bofonchiare del leggendario Jon Kabira è il collante che tiene assieme tutta la serie, il cameo che ti fa sentire istantaneamente a casa.

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“Shuuuutoooooo!” – John Kabira, l’unica, indistinguibile voce di Winning Eleven!

Dai primi titoli su Playstation alle ultime iterazioni sui sistemi next-gen, i suoi pittoreschi sproloqui accompagnano il giocatore sottolineandone le gesta in maniera tanto colorita quanto impeccabile. Inintelligibile e visceralmente decifrabile allo stesso tempo, il commento orchestrato dagli algoritmi made in KCET è la ciliegina sulla torta di prodotti che essudano passione da ogni kilobyte. Purtroppo però, la tronfietà è una brutta bestia. Nonostante la serie continui ad essere presente sugli scaffali, lo smarrimento di un’identità ben precisa, conseguenza di una tardiva ricerca di innovazione che cozza con l’ultra-conservativismo dei publisher giapponesi odierni, un’ossessiva ricerca di un approccio a tutti i costi simulativo, che ha finito col complicare oltremodo il gameplay, frapponendosi fra il giocatore e il divertimento ed una perdita di terreno dal punto di vista meramente tecnologico nei confronti della concorrenza, hanno sancito il declino di una serie che merita di tornare ai fasti di un tempo ma che difficilmente vedremo nuovamente rivoluzionare il genere.