Shadow of the Colossus – Recensione

Gli zoccoli di Agro scivolano fluenti nel vento mentre mi appresto a raggiungere il prossimo colossale nemico insieme al mio fidato compagno a quattro zampe, passando per una fitta foresta, una pianura desolata e una scogliera irta e scoscesa. Sono vicino alla metà esatta dell’avventura e come in apnea continuo a galoppare, ma tutt’a un tratto mi fermo, a lungo, ad osservare il paesaggio circostante, rapito dalla sua bellezza. In quell’esatto momento compio un passaggio di riflessione fondamentale, che fino ad allora la mia mente e i miei lieti ricordi avevano dato per scontato, eclissandolo automaticamente nei meandri del subconscio. D’un tratto, mi rendo conto che quello che sto giocando non è più soltanto il capolavoro del Team Ico, vecchia gloria e vera e propria istituzione dell’epoca PlayStation 2. Al contrario, di fronte ho a tutti gli effetti un gioco nuovo, pensato sì per i vecchi fan, nostalgici e barba-muniti, ma anche per essere genuinamente apprezzato dalle generazioni a venire con stupore e meraviglia, proprio come accaduto a chi, ormai più di dodici anni fa, aveva spolpato l’originale. Il vecchio Shadow of the Colossus è ancora lì, ma insieme a lui c’è anche altro, suggestioni, sensazioni ed emozioni (ri)scoperte per la prima volta, ma con la stessa carica emotiva di un tempo.

Io mi fermerei qui, se solo bastassero queste righe per instillarvi in mente quel tarlo che continua ad assillarmi dal primo momento in cui ho avviato il remake di Bluepoint Games, giocandolo su PS4 Pro. Non è così, e qualcosa qui sotto dovrò pur scrivere per aiutarvi a comprendere di cosa stiamo parlando, anche se, riesaminando la mia coscienza, non posso negare che sviscerare (di nuovo) Shadow of the Colossus in tutte le sue fogge e forme sarebbe un’offesa bella e buona al senso di meraviglia e di scoperta che pervade ogni sua parte e che vi accompagna come una presenza costante, dall’inizio alla fine. Che si fa, dunque? Semplice, improvvisiamo. Insieme. Proprio come Wander, il giovane protagonista, la prima volta che mette il naso fuori dal sacrario del culto e leva la sua spada ai tiepidi raggi del sole, alla ricerca di un fascio di luce riflessa che lo guidi e lo aiuti a non smarrire la via, per poi montare a cavallo e perdersi fra le colline delle terre proibite. Il tutto in maniera assolutamente naturale, o almeno nel mio caso è stato così, tanto che non ho notato subito gli eclatanti miglioramenti estetici che mi si paravano di fronte, malgrado la cosa dovesse, teoricamente parlando, essere fra le mie priorità. Ero talmente ammaliato dalla visione d’insieme, rivista nuovamente dopo lunghi anni, che all’inizio dell’avventura mi sono subito lanciato ad eliminare i gargantueschi colossi uno dopo l’altro, acquisendo solo dopo diverse ore la reale consapevolezza di quanto il mondo in cui mi trovavo fosse diverso e al contempo fedele all’opera originale.

Prima ho parlato del nuovo Shadow of the Colossus come di un remake, e in effetti la definizione che più gli calza a pennello è proprio questa. Si tratta di un rifacimento squisitamente estetico, che ricostruisce dalle fondamenta un’opera rimasta concettualmente la stessa, dandole però un aspetto moderno e funzionale. Gli sviluppatori, già ben noti per le versioni rimasterizzate della trilogia di Uncharted, di Gravity Rush e di God of War III, sono stati chiamati stavolta al passo successivo, superando l’esame a pieni voti. Il risultato finale è un vero e proprio miracolo visivo, in grado di conferire  la dignità di un gioco uscito ieri ad un’opera risalente a due generazioni fa. Shadow of the Colossus, però, era e resta un titolo per pochi, che parte da un incipit semplice e naturale e prosegue (e finisce) con epiche battaglie, ma anche con silenzi assordanti che rapiscono e a tratti sconvolgono. La narrazione, nei collegamenti con il precedente ICO e a posteriori con The Last Guardian, si basava (e si basa) in larga parte su cose non dette e scene non scritte, lasciando molto spazio alla libera interpretazione del giocatore e suggerendogli domande destinate spesso a rimanere senza una vera e propria risposta: in tal senso, ovviamente, nulla è cambiato.

Malgrado il titanico lavoro di studio e adattamento, infatti, il timore di perdere per strada il senso e la visione originaria dell’opera è completamente svanito fin da subito. Bluepoint, potete stare tranquilli, ha trattato il materiale originale con una cura ed un rispetto che hanno quasi del maniacale. Nulla è stato tolto o tagliuzzato, anzi, e le aggiunte e i ripensamenti estetici, necessari per ricostruire soprattutto gli scenari e i fondali, ricalcano pedissequamente l’estetica e la mitologia immaginate da Ueda e i suoi, ispirandosi (pur non in maniera integrale) anche al recente The Last Guardian. Tutto è visivamente su un altro livello, e la completa sostituzione di un engine ormai vetusto consente finalmente di apprezzare appieno i dettagli di un mondo che nasconde al suo interno tanti misteri e segreti, oltre a qualche piacevole, piccola aggiunta che non va a rovinare il quadro e che preferiamo non svelarvi. C’è tanto da scoprire e riscoprire, tanto di cui meravigliarsi ancora: ogni viaggio è impreziosito da meravigliosi effetti visivi, fra cui il mare d’erba che ondeggia come permeato da onde invisibili, o le fronde degli alberi che fremono al vento, attraversate da una fioca nebbiolina. Anche le battaglie con i colossi ne escono enormemente arricchite e acquisiscono un senso completamente nuovo. Ci si rende conto, ora più facilmente rispetto a una dozzina d’anni fa, di quanto queste imponenti e minacciose creature siano in realtà inermi e indifese nella lotta corpo a corpo contro il nostro eroe e la sua antica spada, dotata di poteri arcani e misteriosi. Un fremito selvaggio vi assale ogni volta che vi scrutano preoccupate e i loro occhi si tingono di arancio, ogni volta che scuotono i loro possenti corpi per cercare di liberarsi da voi, minuscola pulce che resta tenacemente avvinghiata al loro folto (e dettagliatissimo) manto, per raggiungere i punti deboli evidenziati dalla stessa spada che le ha permesso di scovare i loro nascondigli. Malgrado i colossi siano a conti fatti gli unici nemici del gioco, non commettete però l’errore di definirlo nel suo complesso come una semplice boss rush. Non fatelo, perché sarebbe una definizione quanto mai lontana dalla realtà. Nel caso di Shadow of the Colossus la somma delle parti non fa l’insieme, e non è la destinazione, ma il viaggio che conta.

Devo essere onesto con me stesso e soprattutto con voi: dopo aver terminato questo remake sono rimasto meravigliato esattamente come accadde la prima volta. Se ne dicono davvero tante su progetti del genere, spesso ingiustamente irrisi e bastonati, eppure, pur sforzandomi per dovere di critica di trovare macchie su una tela così bella, pura e immacolata, io non sono proprio riuscito a non comprendere il senso dell’operazione voluta da Sony. Un lavoro certosino ed impeccabile, affidato con lungimiranza ad uno studio esperto e rodato nel campo, il quale è riuscito alla stragrande nell’arduo compito di salvare una gemma del passato dal pericolo dell’obsolescenza, mantenendone inalterati i pregi e le magiche atmosfere. Ora la possibilità di apprezzarla di nuovo è nelle vostre mani: spetta a voi decidere se coglierla o meno.

Nato nello scorso millennio con una console fra le mani e rimasto per molti anni confinato nel mondo distopico della Los Angeles del 2019, ha infine deciso di uscirne per divulgare al mondo intero le sue più grandi passioni: il videogioco in tutte le sue forme, il cinema (quello vero) e Dylan Dog.