La Tigre e il Dragone: sulle tracce di Art of Fighting

I picchiaduro sono un po’ come i pugili: ne esistono di tutte le categorie e basta osservarli in azione un paio di round per intuire a quale scuola appartengano e quali siano i loro punti di forza. Se un brand completo quale Street Fighter richiama immediatamente il sommo Muhammad Ali, Art of Fighting non può in tal senso che essere il Tyson della situazione.

1992 – Con il primo capitolo di Art of Fighting, la SNK varò la collana 100 Mega Shock. Come sottinteso dal nome dell’iniziativa, i videogame legati ad essa andavano tutti ad occupare un minimo di 100 MB di ROM per espandersi, potenzialmente, fino al limite dei 330 MB inizialmente previsto dalla tecnologia Neo Geo.

Proprio come Iron Mike, il titolo targato SNK non è d’altronde passato alla storia per la propria tecnica sopraffina, bensì in virtù di un’esuberanza a dir poco innaturale, che andava declinandosi tanto nella forma quanto nei contenuti. Se siete di quelli che ebbero l’onore di godersi in prima persona il debutto arcade di questo peso massimo saprete fin troppo bene a cosa ci riferiamo. Agli altri, basterà probabilmente assicurare che, prima del suo arrivo nelle sale giochi, nessuno aveva mai posato gli occhi su un rullakartoni dotato di una tale possanza grafica.

Art of Fighting – La cura per i dettagli non si rifletteva unicamente nei particolari legati all’abbigliamento dei combattenti e alle rispettive caratteristiche fisiche, ma anche nei contorni di fondali zeppi di preziosi particolari.

Laddove gli la maggioranza degli esponenti di settore erano soliti contenere ogni eccesso, il titolo prodotto da Hiroshi Matsumoto tendeva in altre parole ad esaltarsi e non ci riferiamo alle sole dimensioni degli sprite principali, ma anche al maniacale coefficiente di dettaglio che li caratterizzava. Abbinando al tutto routine di animazione espressamente concepite per esaltare l’iperbolica fisicità dei combattenti, ne sarebbe scaturito un affresco visivo persino ridondante che, oggi come allora, ci appare come la più brutale prova di forza mai profusa dalla Neo Geo Technology.

Art of Fighting – Durante gli scontri, i volti dei combattenti avrebbero evidenziato le conseguenze dei colpi subiti. La stessa postura adottata subiva alterazioni visibili, palesando la stanchezza accusata dagli stessi quando la rispettiva barra energetica stava per esaurirsi.

Quale naturale estensione di un concept più orientato a travolgere l’utenza che a stuzzicarne progressivamente l’interesse, il gameplay di supporto avrebbe accantonato la tipica ricerca di bilanciamento perseguita da altre proposte di genere in favore di un approccio più impetuoso alla lotta. Né conseguivano match dalla durata pressoché inferiore agli standard, che tendevano a svilupparsi nell’economia di irruenti scambi di colpi piuttosto che sul ragionato alternarsi di affondi e manovre evasive.

Ryo Sakazaki e Robert Garcia: i due protagonisti assoluti della saga.

Come prevedibile, dette peculiarità incontrarono la diffidenza degli utenti più tecnici, molti dei quali individuarono in una modalità in singolo rea di limitare la scelta del proprio alter ego ai soli personaggi di Ryo Sakazaki e Robert Garcia un ulteriore freno alle proprie velleità tattiche. Al netto di questa restrizione, resa peraltro ovviabile dalla presenza di una valida sezione multiplayer, Art of Fighting non dovette comunque faticare più di tanto per imporsi come uno dei prodotti più gettonati della sua epoca, né per riscuotere il generale consenso della stampa specializzata.

1994 – Storicamente collocabili a cavallo tra gli anni ’70 e l’inizio del decennio successivo, gli eventi successivi al salvataggio della giovane avrebbero rinsaldato il legame vigente tra le due saghe: le vicende narrate in Art of Fighting 2 andavano difatti ad illustrare l’ascesa di Geese Howard – il celeberrimo bad guy di Fatal Fury – ai vertici del potere cittadino.

Avendo da poco abbracciato una nuova politica aziendale volta alla repentina serializzazione di ogni brand di successo, la SNK avrebbe fatto ovviamente il possibile per regalare un pronto erede alla sua mastodontica hit. A due anni di distanza dal rispettivo debutto, le sale giochi di tutto il mondo accolsero così l’imponente case di Art of Fighting 2, con a seguito tutte le novità di cui era foriero. Libero da una storyline invadente quanto quella proposta in precedenza, il gioco offriva stavolta l’opportunità di scegliere il proprio beniamino da un rooster comprensivo di 12 lottatori e accedere così ad un ventaglio più ampio di stili marziali con cui cimentarsi.

Art of Fighting 2 – Il comparto grafico del secondo capitolo della serie proponeva sprite di dimensioni ancor più significative di quelle apprezzate nel suo predecessore. Rispetto alle tozze forme adottate in passato, il character design dei combattenti rispecchiava peraltro canoni più stilizzati.

Questa soluzione non influiva chissà quanto sul gameplay, il quale rimase anzi inalterato, ma garantì ad esso quella versatilità necessaria a stuzzicare l’attenzione di chi aveva attribuito al suo predecessore i meri connotati dell’esibizione tecnica. Non fosse stato per l’odioso sbilanciamento del coefficiente di difficoltà, per via del quale anche il superamento del terzo scontro previsto dalla modalità Arcade vantava connotati da impresa eroica, neanche il più accanito detrattore della serie avrebbe potuto negare a questa sua seconda iterazione tutti gli onori del caso…

Art of Fighting 2 – Il cast di Art of Fighting 2 proponeva ben 12 lottatori selezionabili, alcuni dei quali riproposti con un look differente. Tra le new entry si segnala il debutto del ninja Eiji Kisaragi, rivisto successivamente in The King of Fighters.

A causa di questa sbavatura, il titolo che tutti attendevano come la definitiva consacrazione del marchio finì invece per deludere le aspettative generali e spingere la stessa SNK a rivalutare l’entità del proprio investimento. Prima di avventurarsi nella stesura di un terzo sequel condannato ad infrangere i record segnati da Art of Fighting 2 in fatto di budget e resa visiva, i vertici della Major di Osaka preferirono difatti congelare ogni piano a riguardo. Fino al 1996 Ryo, Robert e parenti più stretti dovettero in tal senso accontentarsi di figurare come guest star nel gigantesco cast di The King of Fighters, la storica cross-over saga che, proprio in quegli anni, viveva le prime fasi della propria storia.

1996 – Con l’arrivo di Art of Fighting 3: The Path of the Warrior, la continuity della storyline e i paralleli tra i due brand vennero sostanzialmente accantonati in virtù di un plot più generico che trova il suo protagonista in Robert Garcia e il proprio setting in una non meglio identificata area del Messico.

Nel frattempo, con l’avvento di opere a matrice poligonale come Virtua Fighter e Tekken, il mondo dei picchiaduro a incontri registrava una rivoluzione radicale che si sarebbe purtroppo rivelata nefasta per la sorte mediatica del terzo episodio della serie. Quando Art of Fighting 3: The Path of the Warrior vide la luce delle sale giochi, il pubblico guardava difatti ai titoli di matrice bidimensionale come reperti di un’epoca ormai tramontata, tanto che quasi nessuno sembrò accorgersi dell’encomiabile sforzo profuso dai responsabili del progetto nel tentativo di infondergli nuova linfa dinamica.

Art of Fighting 3 – Il sistema di animazioni adottato in The Path of the Warrior sfruttava un’arcaica forma di Motion Capture: l’immagine in questione si riferisce a un singolo set di frame legato allo sprite di Robert Garcia.

A fronte di un comparto visivo interamente rinnovato, in cui spiccavano routine di animazione fluide ed articolate come poche altre volte se n’erano viste in un prodotto di genere, il gioco passò in effetti inosservato ai più, suscitando la sola attenzione dei fan più coriacei. Anche se affascinati dal maggior spessore tecnico emerso dal gameplay, questi ultimi non mancarono in ogni caso di puntare ancora una volta il dito contro il bilanciamento del coefficiente di sfida, reso stavolta troppo malleabile dall’introduzione di attacchi speciali imparabili.

Art of Fighting 3 – Lo stile grafico del terzo capitolo della saga abbinava un accennato ridimensionamento degli sprite a inedite sfumature da cartoon che esaltavano l’uso di colori molto vivaci e una gestione molto disinvolta delle fonti di illuminazione.

Così come accade per gli atleti, il tempo non è stato certo galantuomo nei confronti di Art of Fighting: in assenza di ulteriori produzioni volte ad estenderne la carriera il suo ricordo è andato infatti svanendo dalla memoria popolare fino a rimanere patrimonio di una ristretta cerchia di appassionati. Per tutti coloro che non hanno mai dimenticato quei giorni di mastodontiche scazzottate, il brand incarna tuttavia ancora oggi una pagina speciale negli annali dei picchiaduro che molti neofiti del settore farebbero senz’altro bene a studiare!

Nato e cresciuto sulle pagine di Game Republic dove ha diretto per generazioni la sezione Time Warp, Gianpaolo Iglio ama il retrogaming e lo considera una seconda vita. O una seconda amante. Ha scritto un libro sulle avventure Sierra e insegna Game Journalism e Storia del Videogame alla VIGAMUS Academy con Metalmark.